Welfare

Il lavoro sociale smentisce i pessimisti

I risultati dell'indagine Cnca-Fish

di Redazione

Grandi motivazioni, nonostante i salari più bassi. Partecipazione alle scelte gestionali e strategiche. Consapevolezza culturale. Elementi sorprendenti? Niente affatto… «Trovami un lavoro migliore, anche meno pagato ma che mi dia più soddisfazione». Si è conclusa con questa richiesta una lunga telefonata con un’amica che si lamentava dei cattivi rapporti con i colleghi. Io ascoltavo un po’ sorpreso: ma come, lei è diventata, unica donna, una manager di un’affermata azienda informatica e sul più bello vuole cambiare lavoro? E invece non c’è da sorprendersi perché si sa bene che, anche in questi tempi difficili, non solo non si lavora esclusivamente per il denaro, ma sempre più lo si fa per “remunerare” aspetti legati alla realizzazione di sé e alla produzione di benefici “sociali”.
Insomma, i lavori sono appetibili anche per il loro carattere di utilità collettiva, per la qualità delle relazioni con altre persone e, in senso lato, con l’organizzazione di appartenenza e, non ultimo, per gli attributi di creatività e autonomia.
Mi sembra che siano caduti nella mia stessa visione riduzionista del lavoro anche gli autori di un’indagine sul lavoro sociale nelle organizzazioni non profit (cooperative sociali soprattutto) e pubbliche (in parte minoritaria) realizzata da Cnca, Fish, Libera e Rifondazione comunista. Tra le righe traspare spesso una certa sorpresa per alcuni risultati che evidentemente non confermano del tutto le ipotesi (non esplicitate) dell’indagine.
Alcuni esempi. Contrariamente a quel che si pensa, si legge nel rapporto, il settore dei servizi sociali non si sceglie per caso e non è un “parcheggio”, in quanto per chi matura una buona anzianità di servizio cresce lo stipendio e la sicurezza contrattuale. E, ancora, nonostante le condizioni sfavorevoli, le motivazioni legate alla missione sociale e, in senso lato, politica del proprio lavoro sono molto elevate.
E ciò si evidenzia paradossalmente nelle organizzazioni non profit, nonostante queste ultime paghino meno i propri lavoratori. I lavoratori del sociale sono diffusamente soddisfatti della loro organizzazione e non intendono abbandonarla, anche perché molti di loro, soprattutto nel non profit, apprezzano il fatto di poter partecipare alle scelte gestionali e strategiche. Questi stessi lavoratori appaiono inoltre “culturalmente evoluti”: sono in grado di formulare rappresentazioni di contesto sofisticate e innovative, come il welfare di comunità, ben più avanzate di quanto previsto dalla normativa.
Non c’è quindi di che sorprendersi. Anzi, se si fossero recuperate le indagini già svolte sul tema e che confermavano, a grandi linee, lo stesso impianto di risultati forse si poteva fare un passo avanti soprattutto sul fronte delle politiche. Un esempio su tutti è il ruolo della formazione che, stando ai dati, non può riguardare il solo profilo “sociale” del lavoro, ma anche le caratteristiche dei contesti organizzativi e soprattutto di network in cui si svolge. Una rappresentazione più articolata consentirebbe così di affrontare con qualche idea in più il nodo salariale, di fronte al quale molte analisi e prese di posizione si fermano. Serve un “mix di incentivi”, economici e non, che premi non solo la produttività, come va di moda sostenere in questo periodo, ma aspetti più sostanziali legati alla partecipazione ai processi di governance dei servizi sociali, all’assunzione di responsabilità in senso “imprenditoriale” nelle gastione del lavoro, all’investimento sulle proprie competenze professionali e relazionali.

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