Non profit

Il miglior lasciatario è il vicino di casa. Le sedi locali sono un collettore da valorizzare

La forza del territorio

di Redazione

La letteratura internazionale è impietosa. Racconta di una anziana signora, ricca e senza eredi, che per tutta la vita aveva fatto volontariato in una piccola associazione di quartiere. Quando morì, però, i suoi beni li lasciò al college che aveva frequentato da ragazza e con cui mai più aveva avuto a che fare. Tranne che per una lettera: quella con cui il college proponeva ai suoi ex studenti di fare un lascito testamentario in suo favore. Cosa invece che la piccola associazione sotto casa mai si era sognata di fare.
È una storia vera, purtroppo per la “piccola associazione sotto casa”, e la morale è semplice: «I lasciti testamentari non si intercettano se non li si vanno a cercare», spiega Stefano Malfatti, responsabile del fundraising in Fondazione don Gnocchi. Gli esperti di fundraising prevedono che la crescente disponibilità degli italiani a destinare al non profit una parte della propria eredità sarà una grande chance per le realtà più radicate sul territorio, là dove la reputazione si sostanzia con l’aver “visto da vicino”, per una vita intera, i volti e le storie che fanno parte di quella realtà che alla fine si sceglie di sostenere. A patto di chiedere, ovviamente.

L’acqua alla gola non paga
La Fondazione Don Gnocchi è un big player con le radici ben salde nel territorio. Ogni anno riceve una ventina fra legati ed eredità; l’ultimo bilancio a questa voce registrava 6 milioni di euro di entrate, ma tutti e solo dalle nove regioni in cui la fondazione è presente: «Chi sceglie di fare un lascito a noi non ha necessariamente avuto un’esperienza diretta dei nostri servizi», precisa Malfatti, «però di certo ha una conoscenza della nostra realtà perché sul territorio siamo fortemente rispondenti ad alcuni bisogni». È questa la carta vincente, anche se «spesso invece le piccole associazioni e le cooperative sociali, chi ha bisogno di liquidità immediata, neanche considerano questo strumento. È un errore».
Anche alla Uildm i lasciti sono legati a doppio filo al territorio, «tant’è che nella maggior parte dei casi è citata la sede territoriale, non la Uildm», spiega Alberto Fontana, il presidente. L’ultimo, un legato da 100mila euro arrivato nel 2011, è andato a Siena. Anche qui non gioca tanto la conoscenza diretta («comprensibilmente, le famiglie sono già depauperate da una disabilità che insorge in età molto giovane»), ma «l’averci visti all’opera». Per Fontana però il territorio in questo senso «è un terreno fondamentale ma casuale, non riesci ad orientarlo, proprio perché nel rapporto diretto è più difficile esplicitare l’invito, dire “lascia a me una parte dei tuoi beni”».

I vincoli burocratici
A Milano nel 2006 il grande e innovativo hospice di Vidas è stato costruito per due terzi grazie a eredità e lasciti. E dal 2008, con la crisi delle donazioni, per Giorgio Trojsi, segretario generale di Vidas, «queste entrate sono state la nostra àncora di salvezza»: nel 2011 valevano 1,1 milioni di euro, anche se «quelli non sono i testamenti del 2011, perché dall’apertura del testamento al consolidamento passano un paio d’anni. Gestire il lascito richiede un’attività complessa, c’è una richiesta esasperante di documentazione e il fatto che sempre più spesso siano citati più enti allunga i tempi, soprattutto con le realtà più grandi che hanno procedure più complesse. Ma certo il ritorno sull’investimento è altissimo». Anche in questo caso è raro che i testatari siano tra le persone passate di qui, «più spesso è un nostro donatore o un socio ordinario, in generale semplicemente un milanese che ha la percezione che quel che fa Vidas è qualcosa di utile per la cittadinanza». Magari, come è successo a Vidas, perché l’hai visto con i tuoi occhi, con il tuo vicino di casa.

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