Cronache russe

Il Nobel per la pace Orlov: «Sono tanti i russi che non vogliono la guerra, ma non possono dirlo»

Oleg Orlov, premio Nobel per la pace, esule russo che vive a Berlino, è stato liberato lo scorso agosto con uno scambio di prigionieri tra la Russia e l’Occidente. «Tante persone nel Paese non appoggiano la guerra. Non sostengono Putin. Ma si chiudono. Non vogliono parlarne: la paura e il senso di colpa paralizzano la volontà. Pensano di non poter fare niente. Invece bisogna separare la Russia dal putinismo. Bisogna spiegare che combattere Putin significa combattere per il futuro della Russia, non contro di essa»

di Alexander Bayanov

Domenica 8 giugno a Milano, con il supporto di Memorial Italia e Associazione dei Russi Liberi in Italia, si è tenuto un incontro con Oleg Orlov, premio Nobel per la pace e cofondatore di Memorial — una delle organizzazioni più importanti nella storia russa contemporanea, oggi vietata e liquidata dal regime di Putin. Orlov è una delle figure più autorevoli del movimento russo per i diritti umani. Da oltre trent’anni documenta crimini di guerra, repressioni politiche e violazioni sistematiche della dignità umana in Russia e nelle zone di conflitto. Nel 1995 si offrì volontario come ostaggio durante la crisi di Budënnovsk per salvare dei civili. È stato presente ovunque ci fosse ingiustizia — dalla Cecenia alle carceri russe. Nel febbraio 2024 è stato condannato a 2 anni e mezzo di colonia penale per un articolo in cui definiva il regime di Putin “totalitario e fascista”. È stato liberato solo il 1º agosto 2024 nell’ambito di uno scambio tra la Russia e l’Occidente. L’Occidente ha ottenuto il rilascio di attivisti e cittadini detenuti ingiustamente. La Russia, in cambio, ha ricevuto criminali condannati, come il sicario Vadim Krasikov. Memorial è stata chiusa perché, secondo il potere putiniano, ogni forma di coscienza e memoria in Russia deve essere distrutta.

Dopo la sua liberazione dal carcere, Orlov si è dato subito due missioni: lavorare in Ucraina e lottare per la liberazione degli altri. «Quando sono stato liberato avevo una priorità: cercare di fare in modo che dopo di noi si riuscisse a strappare fuori almeno qualcun altro», racconta a VITA. È stato due volte in Ucraina: ha scritto, parlato, lavorato. Ma la liberazione dei nuovi prigionieri politici si è rivelata ben diversa da quanto sperato: «Ci sto provando. C’era la speranza che ci sarebbe stato un altro scambio, ma come sapete non è successo. Gli scambi che sono iniziati ora vanno in tutt’altra direzione rispetto a quanto ci aspettavamo». Particolare attenzione è dedicata allo scambio “mille per mille”, che secondo lui è diventato una beffa alle aspettative: «La parte russa gestisce questi scambi in modo assolutamente truccato… Hanno tirato fuori dalle colonie ucraine comuni criminali e in cambio hanno dato quelli il cui termine di pena era già scaduto… Non è uno scambio — è una farsa».

Le trattative occidentali e il “commercio” politico delle vite umane

Orlov ammette onestamente che qualche anno fa credeva che l’Occidente avrebbe sostenuto un nuovo formato di scambio dei detenuti. «Mi sembrava possibile, stilavamo elenchi, parlavamo di persone concrete… E poi è arrivato Trump con i suoi scambi, dove dei prigionieri politici russi, almeno, non importava a nessuno». Ora vede che i politici occidentali non distinguono tra le categorie di detenuti: «Per loro è lo stesso. Prigionieri di guerra, civili… Ma tra queste persone c’erano attivisti, quelli che hanno semplicemente parlato. Protestato pacificamente. Quelli che sono scomparsi. 16mila scomparsi  è la cifra stimata dalle autorità ucraine». Racconta come i civili ucraini, manifestanti, persone solo sospettate di non lealtà, impiegati delle amministrazioni locali, venivano rapiti, torturati, poi alcuni sparivano, altri finivano nelle carceri russe in isolamento. Ufficialmente sono noti 1.600 casi, ma il numero reale è molto più alto. «E queste persone vanno salvate… almeno quelli sotto inchiesta o già condannati. Si possono scambiare. La parte ucraina dice: siamo pronti. La parte russa tace. O bara».

Quando si parla dei possibili negoziati tra Ucraina e Russia, soprattutto con la mediazione della Turchia, Orlov reagisce con cautela: «Non vedo come possano fare del male. Ma non capisco nemmeno come possano migliorare la situazione». Sottolinea che Putin usa i negoziati come strumento per prendere tempo: «Putin li usa per un rinvio infinito. L’unico lato positivo sono i possibili scambi umanitari. Per il resto sono solo chiacchiere». E aggiunge, con particolare serietà: «Putin capisce solo la pressione. Si può influenzarlo solo con la pressione. Se i negoziati portano a un allentamento della pressione sono un fallimento».

La guerra e la società russa: paura, colpa e paralisi della coscienza

Si arriva al tema più doloroso, la percezione della guerra da parte dei russi. La sua posizione è amara ma onesta: «Tante persone non sostengono la guerra. Non sostengono Putin. Ma si chiudono. Si isolano. Non vogliono parlarne». Perché? Perché la paura e il senso di colpa paralizzano la volontà: «E allo stesso tempo la consapevolezza che non si può fare nulla». Ricorda uno scambio di messaggi con amici in Russia: «“Oleg, pensi davvero che non capiamo cosa sta succedendo? Lo capiamo benissimo. Ma tu dimmi possiamo fare qualcosa senza sacrificarci?”». Questa, secondo lui, è la tragedia di una generazione: la paura che distrugge dall’interno. «”Se ci penso tutto il tempo”,  mi hanno detto, “mi distruggo dentro”». Alla domanda su cosa fare, risponde con franchezza: «Bisogna separare la Russia dal putinismo. Bisogna spiegare che combattere Putin significa combattere per il futuro della Russia, non contro di essa».

Nonostante tutto Oleg Orlov rimane uno dei leader del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial, ormai informale, ma vivo: «Siamo tre co-presidenti. Io a Berlino, Sergey Davidis a Vilnius, Natasha Morozova a Parigi. Ma ogni giorno ci sentiamo, lavoriamo, ci scambiamo informazioni, ci sosteniamo. Si lavora anche in Russia e nel Caucaso del Nord». Non ci sono più strumenti giuridici. Né uffici. Ma ci sono volontari, avvocati, una rete. Raccolgono informazioni, aiutano, pubblicano anche senza registrazione, senza documenti. Sul futuro parla chiaramente: «Quando inizieranno i cambiamenti, dobbiamo avere mappe stradali. Dobbiamo essere pronti. Anche se ora sembra una fantasia. Anche se per ora esiste solo nella testa».

AP Photo/Markus Schreiber/LaPresse

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.