Non profit

In Borsa adesso esplodono le cluster bombs

Il 70% degli investitori possiede quote di fondi "armati"

di Redazione

A sostenerlo è uno studio di Merian Research e Ires Toscana reso noto proprio alla vigilia dell’entrata in vigore della convenzione Onu contro le munizioni a grappolo Cosa pensereste se il fondo in cui avete messo i vostri risparmi investisse, sostanzialmente a vostra insaputa, in società del business degli armamenti? Peggio, se avesse in portafoglio titoli di aziende che producono armi messe al bando da convenzioni e trattati internazionali, come le mine anti uomo o le famigerate cluster bombs (bombe a grappolo)? Vale la pena rifletterci, perché la probabilità che ciò accada è piuttosto elevata. Secondo una ricerca condotta da Merian Research e Ires Toscana, infatti, un investitore che mette i propri soldi in un fondo comune d’investimento italiano azionario o misto (oltre 400 quelli analizzati), ha circa il 70% di probabilità di acquistare un fondo “armato”, che detiene cioè azioni di imprese che producono armi.
La situazione non è piacevole specie alla vigilia dell’entrata in vigore, il prossimo primo agosto, della Convenzione delle Nazioni Unite, firmata a Oslo nel dicembre 2008, per la messa al bando proprio delle munizioni cluster. Sottoscritta da più di cento Paesi, è stata però ratificata al momento da poco più di una trentina, e l’Italia è fra quelli che mancano all’appello.
I dati sulle bombe cluster sono terrificanti. Si stima che nei conflitti degli ultimi dieci anni ne siano state utilizzate più di 360 milioni. Enorme il danno causato alle popolazioni civili: si calcola che degli 11mila individui che ogni anno rimangono vittime di questi ordigni laddove sono disseminati, il 98% siano civili.
Se proibire la produzione di queste micidiali armi è relativamente facile, però, assai più complicato è impedire che attraverso i mille canali dei mercati finanziari si possa comunque investire in imprese del settore, residenti magari in Paesi che non hanno aderito a trattati e convenzioni e tanto meno si sono premurati di legiferare in materia.
Ecco perché è stato appena presentato in Senato un disegno di legge che intende proibire la possibilità che gli istituti bancari e tutti gli altri intermediari finanziari, società di gestione del risparmio e fondi pensione compresi, possano investire in aziende che producono queste armi.
Il ddl n. 2136, che titola «Misure per contrastare il finanziamento delle imprese produttrici di mine antipersona, di munizioni e sub munizioni a grappolo», è stato promosso dalla Campagna italiana contro le mine insieme a Fcre – Fondazione culturale responsabilità etica, col sostegno della Rete italiana per il disarmo. E si deve all’iniziativa di una quindicina di senatori, in primis Silvana Amati (Pd) e Barbara Contini (Pdl), a dimostrazione che su questo tema è possibile costruire un consenso ampio e trasversale, bipartisan.
«Il ddl è nato dalla campagna internazionale contro le mine e dall’ultimo Rapporto («Worldwide Investments in Cluster Munitions: A shared responsibility») che ha segnalato come ancora oggi 20 miliardi di dollari nel mondo siano investiti in imprese che producono munizioni cluster», dice Sabina Siniscalchi, senior advisor di Fcre e appena nominata nel nuovo cda di Banca Etica, «e sapendo che in altri Paesi ci sono leggi di questo genere, abbiamo deciso di muoverci anche in Italia». In Norvegia e Svezia, ad esempio, sono stati i grandi fondi pensione a indicare la strada da seguire mettendo al bando tali investimenti.
Quale l’iter e i tempi prevedibili, ora, per il ddl? «Non si sa ancora a quale commissione verrà assegnato», risponde Siniscalchi, «anche se probabilmente andrà alla commissione Finanze del Senato».

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