Coesione sociale

Io, palermitano tamil, giornalista di comunità per una città veramente multiculturale

Stefano Edward, 35 anni, nato e cresciuto a Ballarò, è tamil di seconda generazione. È stato il più giovane rappresentante della comunità tamil nella Consulta comunale delle Culture. «Palermo è orgogliosa di essere una città multiculturale, ma non basta fare musica etnica e qualche piatto etnico: ora serve un passo in più»

di Gilda Sciortino

Cosa vuoi fare da grande? A chi non è mai stata fatta questa domanda? Le risposte, nella stragrande maggioranza dei casi, sono state la ballerina, il calciatore, il vigile del fuoco, il dottore. Stefano nel suo destino aveva quello di creare ponti di dialogo tra chi non sarebbe mai entrato in connessione, senza un tramite. Il giornalismo, lui, lo ha sempre interpretato così.

Si accalora, Stefano Edward, quando parla della sua comunità. Lui, tamil di seconda generazione, è nato 35 anni fa a Palermo, dove suo padre è arrivato intorno agli anni Ottanta. Qui ha conosciuto la sua futura moglie e insieme hanno costruito la loro famiglia.

«Diciamo che è stato un percorso abbastanza difficile», racconta Edward, «perché, essendo figlio unico, mio padre aveva grandi progetti per me. Lui ha studiato a Jaffna, in una scuola prestigiosa, il Collegio di San Patrizio, quindi religiosa. Il sistema di istruzione del mio Paese è quello britannico: se volessimo fare un paragone con Palermo mi riferirei all’Istituto Gonzaga, una scuola gesuita. Alte le sue aspettative, quindi, anche per me. Io sono nato a Palermo, ho entrambe le cittadinanze e non ho avuto il problema del riconoscimento dei titoli di studio, com’è successo a lui e ad altri della sua generazione. A Palermo, ma non solo, anche in termini diasporici tra la prima e la seconda generazione, quella a cui appartengo io, di giovani nati o cresciuti in Italia o in Europa, proprio quest’ultima si è ritrovata con il peso di un prestito sociale dato dalle tante delusioni e difficoltà delle nostre famiglie. Anche se avrebbe voluto un riconoscimento diverso del suo percorso di studi, mio padre ha deciso di rimanere in questa città. Poi io stavo ancora crescendo, stavo studiando. Certe volte me lo dice: “Potevo andare via prima”. Un rimpianto, rispetto alle scelte anche azzardate che avrebbe potuto fare, ce l’ha: ma qui abbiamo formato la nostra famiglia, così va bene».

Un peso sociale che ha fatto i conti anche con i flussi dell’emigrazione…

Verso i primi anni 2000 alcuni nuclei familiari di origine tamil hanno deciso di spostarsi da Palermo verso il Nord Italia, in particolare in Emilia Romagna. A Reggio Emilia c’è, infatti, una comunità molto grande, composta da tamil provenienti proprio da Palermo, in modo particolarmente quelli che abitavano nel quartiere Zen, andati a lavorare nelle fabbriche del Nord. I figli hanno studiato e poi si sono inseriti lavorativamente. Si sono trovati bene e vivono tra Reggio Emilia e le zone limitrofe. Alcuni nuclei anche a Bologna. Questo il primo transito emigratorio. Più avanti nel tempo, invece, in tanti dalla Sicilia si sono spostati verso il nord Europa, in particolare il Regno Unito, più recentemente verso la Francia e la Germania. Essendo una diaspora, molti hanno parenti, zii, cugini sparsi in vari Paesi. A Palermo, però, la comunità tamil risulta tra le più numerose, seconda a quella del Bangladesh, seguita da quella filippina.

Uno dei momenti in cui la comunità tamil incontra la città di Palermo

Suo padre ha ì scelto la Sicilia…

Essendo una comunità, vige molto il passaparola e a mio padre chiedevano come mai fossimo rimasti qui, quasi intendendo che stessimo sprecando il nostro tempo. Se fossi andato fuori, affermavano, mi sarei realizzato, avrei fatto carriera, ma neanche io allora sapevo che il mio destino sarebbe stato legato a Palermo, alla Sicilia. Mi sono diplomato all’Istituto tecnico commerciale, nonostante non fosse la scuola adatta a me. Portai una tesina sulla discriminazione razziale, che evidentemente non c’entrava niente con il corso di studi. Diciamo che già la mia indole era orientata verso quell’attivismo, che poi piano piano è esploso. Io, in effetti, avrei voluto  fare il liceo linguistico, perché amo le lingue, la comunicazione, quindi sarebbe stato ideale fare quello, ma la scelta in quel caso fu di mio padre. Diciamo che allora ero molto timido, non avevo molto carattere nel contrastare queste decisioni. Non ero lo Stefano di oggi. L’università cominciò con Giurisprudenza, ma mi trovai quasi subito male, così alla fine mi sono laureato all’Università di Palermo in “Comunicazione pubblica, d’impresa e pubblicità”, portando una tesina sulla storia di Perlasca. Tutto questo mi ha dato quel know-how in più che mi avrebbe aiutato più tardi nella professione.

A un certo punto è stato necessario cominciare a raccontare chi fosse la comunità tamil e soprattutto che cosa stesse accadendo in Sri Lanka…

Era un periodo storico complicato perché, dopo la fine della guerra, nel 2009, era ancora forte il pregiudizio mediatico: anzi, più che pregiudizio, direi “giudizio mediatico” nei confronti dei tamil. Venivamo descritti come terroristi, come separatisti, i fari erano accesi su tutta la comunità. Si diceva che raccoglievamo soldi per foraggiare l’acquisto di armi. Ovviamente vigeva una forte disinformazione, alla diffusione della quale si sono prestati tanti media italiani, non volendo approfondire la storia di un popolo dignitoso, non violento, che addirittura ha usato il sincretismo per raffinare le culture delle città che le hanno accolte, portando come modello quello dell’accoglienza e dell’assimilazione culturale di quei contesti, invece di giustificare tutto con le finalità terroristiche. In questo, dimenticando che in questa guerra durata circa trent’anni, solo nell’ultima fase, ha registrato 40mila vittime civili, un vero e proprio massacro.  Sono ancora oltre 146mila le persone scomparse, ma non se ne parla.

Necessario, prima di tutto, lavorare sui codici comunicativi…

Mi sono detto che, da giovanissimo attivista, dovevo creare della connessioni e cominciare a lavorare sul codice comunicativo e linguistico. Mi accorsi, infatti, che i tamil lo utilizzavano, ma pensando nella loro lingua e parlando in italiano. Non andava bene perché, per esempio, io posso comunicare con un tamil in tamil e farmi capire con quel codice linguistico, con quella cultura, identificandomi in quello che dico. Se, però, ragiono da tamil e parlo in italiano, sembrerà strano, ma passo per un estremista, anche quando disserto di autodeterminazione, di autonomia. Io utilizzo delle parole giuridiche che hanno una valenza, invece i tamil, dal momento che hanno subito delle ferite, delle lacerazioni in termini non solo metaforici, ma anche fisici, spesso accade che l’orgoglio e la rabbia li portino a ragionare ed esprimersi in un modo che non gli permetterà mai di farsi capire dal mondo occidentale.

Una delle sedute della Consulta comunale delle Culture

Un ponte di dialogo sostenuto anche dall’azione politica.

Sono stato il più giovane rappresentante della comunità tamil all’interno della Consulta comunale delle Culture. Tutto questo, in una città come Palermo dove, dagli anni ‘90 a oggi, la società civile palermitana ha lavorato per contrastare le mafie e arrivare a non avere più paura. In quegli stessi anni la comunità tamil ha iniziato a costruire scuole per non disperdere la nostra cultura, siamo riusciti a capire i meccanismi della città e a parlare anche dei massacri avvenuti in patria. Convivevano, quindi, due anime della stessa città che lottavano per la verità su stragi parallele, volendo sostenere la dignità umana.

Le due stagioni parallele di Palermo?

Palermo è come se avesse vissuto due Primavere: la prima, quando c’era la guerra civile in corso e i tamil chiedevano di vivere liberi nella loro terra; la seconda, il debunkering contro la disinformazione, contro l’isolamento della comunità, definita come una comunità da attenzionare, che poi ha portato a riconoscimenti da ambo i lati, sia dalla destra che dalla sinistra, tant’è che di recente sono stati siglati dei protocolli di intesa tra il Comune di Palermo e le associazioni tamil. Si è anche arrivati a istituire, il 18 maggio, la “Giornata della Memoria” per commemorare le vittime del genocidio. Tutto frutto di un percorso che io personalmente ho sentito carico di responsabilità. Se decidi di rappresentare la tua comunità in un’organismo come la Consulta delle Culture, lo devi fare per senso civico, ma anche per responsabilizzare le persone a portare avanti le proprie istanze. Ricordo tutte le emozioni di quando facevo avanti e indietro dallo Zen, dove viveva un nucleo di concittadini e dove c’era una sede di staccata della scuola tamil, nella quale andavo a fare volontariato. La parrocchia “San Filippo Neri” è tuttora un punto di riferimento per i tamil, ma non se ne parla spesso del multiculturalismo di questo quartiere, reso ancora più forte da un Terzo settore molto attivo.

Cosa vuol dire essere considerato il collante tra una comunità così ricca di storia e cultura e una città come Palermo?

Qualcuno mi chiamava anche braccio operativo, ma si, ero il collante. Ho fatto anche da ponte con la Chiesa palermitana, soprattutto con l’Ufficio pastorale del Dialogo interreligioso di don Piero Magro. Ci sono momenti in cui il Vescovo di Palermo apre le porte alle religioni, poco prima della Festa per Santa Rosalia, la Santa Patrona di Palermo, il 14 luglio. Si organizzano numerosi incontri al Palazzo vescovile con la comunità islamica, con l’induista, con quella mauriziana e la nostra. L’inizio di un percorso che ha visto la Chiesa impegnata a creare momenti di sensibilizzazione sui temi dei diritti umani dei tamil. Io ho solo dato una bella spinta ad una macchina che non partiva più. Sono anche gli anni in cui l’allora sindaco Leoluca Orlando ha dimostrato concretezza nel riconoscere la nostra storia, l’identità, la sensibilità di un’intera comunità. Anche Rita Borsellino è stata al fianco di noi tamil, non voglio dimenticarlo. Una vicinanza, pure per lei, non di facciata, ma vera, concreta.

Comunità urbane solidali

Un percorso, un racconto che confluisce nella professione di giornalista “di comunità”: che significa?

Oggi, ovviamente più di ieri, capisco cosa vuol dire leggere la realtà con la lente da cronista. L’occhio critico e la creatività li ho da sempre. Volevo raccontare anche le grandi storie di italiani invisibili, di italiani senza cittadinanza. Il che mi commuoveva, mi dava anche un po’ di rabbia, perché io pure ho vissuto quell’invisibilità, essendomi sempre sentito lo straniero di qualcuno. Ovviamente, all’inizio non avevo un mio stile, una mia riconoscibilità, era un mondo a parte e, passo dopo passo, mi dicevo: “Vediamo dove arrivo”. Il traguardo l’ho tagliato diventando pubblicista, ma ancora di più quando mi hanno riconosciuto come giornalista di comunità. Io porto avanti un giornalismo sociale, nel quale confluiscono legalità, memoria, identità e riconoscimento plurale dei diritti universali, senza distinzione alcuna. E sono riconoscente a quei quartieri, a quelle persone che mi hanno adottato come figura professionale in termini umani, vedendo in me un punto di riferimento. Una grande cosa poterlo fare in una città come Palermo dove, se tu hai energia e creatività, ricevi tanto in cambio. Devi, però, essere in grado di studiare l’ambiente, di capire cosa fare, di metterti in gioco. Io sono per la condivisione dei saperi, ma non sempre è compreso. Vorrei toccare con mano anche la concretezza dei temi, anche perché non ho visto un cambiamento in termini di partecipazione politica attiva delle comunità migranti. Così come non ho visto indicazioni da parte di eventuali assessori appartenenti alle nuove generazioni. Purtroppo la mia di generazione, i Millennials, è stata quella che ha avuto più pressioni per capire cosa fare. Molti non ce l’hanno fatta, si sono laureati e sono andati via, abbandonando la loro città.

Una narrazione che ora diventerà anche un libro…

Era maturo il tempo di fare memoria di tutto quello che è accaduto e che io ho vissuto personalmente. Sto lavorando a un libro che collega un “frammento di storia” della città con quella della mia comunità. Ripercorrerò molto semplicemente alcune fasi clou che hanno permesso a Palermo di divenire la Capitale italiana dei Tamil. E questo, in termini di densità abitativa, culturale e sociale, senza altri elementi che ne possono inficiare la valutazione.

Che realtà vive oggi la comunità tamil?

La mia è una comunità che, con tanta dignità e tanta umanità, ha sempre voluto gestirsi da sola, ma non ha mai trovato spazi per condividere con la città la propria cultura. Parlo di spazi comunali, pubblici. Credo, però, che sia lo stesso per le altre etnie. Come sarebbe bello vedere un co-working con uno spazio tamil, filippino, bengalese, maliano, gambiano, insomma un co-working delle comunità. Il limite di Palermo è che noi siamo orgogliosi di essere una città multiculturale, ma non capiamo a che livello vogliamo arrivare per investire su una certa qualità. Siamo talmente focalizzati sul cibo, sulla musica, sulla cultura: basta fare un po’ di musica etnica, qualche cena con piatti etnici e quella crediamo sia multiculturalità.

E cosa sarebbe ancora necessario, secondo lei, per capire realmente la vostra cultura?

Per capire realmente la nostra cultura bisognerebbe fare un percorso itinerante. Io credo che, da palermitano quale io mi sento profondamente, esistano ancora molti falsi miti, molti pregiudizi alimentati da alcune politiche populiste che portano allo scontro tra i vulnerabili.

Cosa sarebbe bello vedere?

A proposito di autodeterminazione, sarebbe bello vedere crescere un associazionismo delle comunità e fare in modo che ci sia una reale rete circolare, un’economia circolare. Sarebbe bello vedere un senegalese che offre cibo a un tamil e un tamil che lo offre a un senegalese o a un ghanese. Sarebbe bello vivere queste esperienzie anche a Palermo: il palermitano che vende lo street food tamil, lo street food filippino o bengalese e viceversa. Bisogna cambiare la mentalità, arginare i pregiudizi di chi vive altrove, consapevoli che ognuno di noi è ignorante in qualche tema. Siamo tutti ignoranti: ma ignorare la diversità porta alla violenza verbale e fisica rispetto alla nostra identità. Dobbiamo ancora fare dei passi da gigante da questo punto di vista, lavorando anche sui margini periferici. Io credo che non sia così difficile, ma non capisco perché non vogliamo farlo.

Le foto sono state fornite dallo stesso Stefano Edward

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