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Attivismo civico & Terzo settore

Il dopo-sviluppo, chi pensa e chi opera

Editoriale di Riccardo Bonacina

di Redazione

La crisi economica internazionale ha costretto il governo a un drastico taglio delle previsioni sul Pil 2008: dall?1,5 allo 0,6%. Praticamente una crescita zero, hanno avvertito gli analisti, e non erano ancora arrivate le nubi dagli States (il quasi default di una banca come la Bear Stearns per i mutui subprime), le Borse che il 17 marzo scorso hanno bruciato 300 miliardi di euro, il petrolio che sfiora i 115 dollari al barile, le montagne russe sui tassi della Fed e il rialzo senza fine dell?euro, e come se non bastasse le tensioni geopolitiche che si riaffacciano anche nel cuore dell?Europa, a Mitrovica. Insomma, tutti segni che la crisi non sarà passeggera ma strutturale. Una mole di cattive notizie da far invecchiare di dieci anni i programmi dei due principali contendenti nella campagna elettorale: Pdl e Pd, i cui programmi sono tutti costruiti intorno al mantra dello sviluppo. Parola che ricorre 25 volte nel programma Pd, e 17 volte nel programma Pdl.

Non sappiamo se abbia ragione Serge Latouche quando nel suo freschissimo pamphlet (Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri) sostiene che la decrescita deve diventare un vero e proprio programma politico. Certo converrebbe a tutti riflettere sul suo caustico avvertimento: «Come non c?è niente di peggio di una società del lavoro senza lavoro, non c?è niente di peggio di una società della crescita in cui la crescita si rende latitante». Non c?è un diverso sviluppo, o uno sviluppo sostenibile, ragiona Latouche; se non si vuole andar incontro al disastro converrà pensare al ?dopo sviluppo? e a un modello economico diverso, la ?decrescita serena? da realizzarsi intorno a otto R: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Oggi, a ragionare su quale modello sia possibile per il dopo sviluppo non è più solo Latouche o qualche sito no global, ma anche il capo della Chiesa cattolica, Benedetto XVI di cui si annuncia un?enciclica severissima contro la globalizzazione («Non si può dire che la globalizzazione è sinonimo di ordine mondiale, tutt?altro», aveva detto la scorsa Epifania). O, ancora, un cattolico liberale come Quadrio Curzio, che arriva a sintetizzare la fase alle nostre spalle come «l?illusione che si potesse consumare senza produrre, consumare senza pagare, investire senza risparmiare», e che arriva anche a riconoscere che «è impossibile lo sviluppo senza limiti». O un leader del centrodestra come Tremonti, che scrive nel suo nuovo libro (La paura e la speranza, Mondadori): «Questa è una crisi globale, strutturale. Non limitata alla finanza, ma estesa all?economia: non limitata agli Stati Uniti, ma estesa al resto del mondo. La crisi di liquidità sta diventando crisi di solvibilità. Gli strumenti tecnici finora applicati hanno un?utilità limitata. In ogni caso, segnano il ritorno dell?intervento della mano pubblica, l?opposto dei canoni mercatisti. Serve una discontinuità insieme concreta e simbolica».

Una discontinuità che Chiara Lubich aveva iniziato a proporre già nel 1991 con l?idea di un?Economia di comunione nella libertàche oggi è diventata pezzo di storia e di economia. Se politici e pensatori guardassero di più a quanto si costruisce dal basso…


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