Cooperazione & Relazioni internazionali

Ong, basta con la “pornografia” del dolore

Si accende il dibattito attorno al reality umanitario di Raiuno. Si può immaginare un nuovo modo di comunicare per le organizzazioni non governative che vada oltre il pietismo? Il parere di un esperto, con tanti esempi video

di Redazione

La notizia che in autunno su RaiUno andrà in onda un reality che porterà otto vip in altrettanti campi profughi, accanto agli operatori di UNHCR e di Intersos, sta finalmente iniziando a sollevare anche in Italia alcune questioni alquanto delicate e complesse: come le ONG possono e devono comunicare il proprio lavoro e farsi portavoce delle persone e delle realtà con cui “cooperano allo sviluppo”? Come uscire dall’autoreferenzialità e aprirsi al grande pubblico? Queste domande sono inscindibili da un’altra: quale comunicazione mettere in campo per il fundraising? Non si tratta di una questione soltanto tecnica, ma anche etica, valoriale. E in un triplice senso:

1.     In primo luogo, perché non solo si rischia la “pornografia del dolore”, ma anche molto facilmente di consolidare stereotipi e l’abitudine a decidere solo sulla base della “pancia”, per pietà e senso di colpa indotto. Le emozioni sono fondamentali in ogni istante e decisione della nostra vita, ma quante sono le emozioni su cui costruire empatia? E possono essere le sole emozioni a guidare scelte di impegno personale?

2.     Le ONG hanno il dovere morale di fare fundraising in modo efficace a sostegno dei progetti e per il raggiungimento degli obiettivi di solidarietà internazionale cui sono votate (oltre che, ovviamente, di spendere bene quanto raccolto, ma questo aprirebbe altre questioni – forse anche più complesse – che ci porterebbero troppo lontano). Detto ancora più semplicemente: niente soldi, niente progetti; scarsità di risorse economiche, bassa capacità di intervento (molto può essere valorizzato attraverso il volontariato, il baratto, il riciclo e recupero ecc., ma non può bastare).

3.     Le ONG che vogliono essere efficienti e trasparenti nel proprio lavoro devono avvalersi di professionisti, i quali vanno pagati dignitosamente (con buon senso), e con contratti che tutelino i diritti dei lavoratori. Queste cose costano, e il fundraising dovrebbe avere anche queste finalità.

Alcuni esempi di campagne di comunicazione basate sul dolore e sulla pietà, sempre più utilizzate in Italia oltre che all’estero, sono, a puro titolo di esempio (ovviamente non sono i soli), quelle lanciate da Medici Senza Frontiere (si veda qui oppure i primi 45 secondi di questo altro video) e da Save the Children. Se non interviene l’insofferenza per l’eccesso di dolore, su di noi l’impulso a donare sarà forte e immediato, ma poi continueremo a vivere come sempre. Molto difficilmente attraverso questa strada si riuscirà a promuovere una cittadinanza attiva nelle persone e una cultura di solidarietà e di responsabilità globali, che ci spingano a cambiare i nostri comportamenti nella vita quotidiana. Non solo. Smetteremo di donare non appena il senso di colpa si attenuerà o scomparirà, cosa che mediamente accade molto presto. E dunque perderemo un donatore, dovremo rilanciare con altro dolore, anzi con maggiore dolore rispetto alle altre ONG, in una gara al rialzo per accaparrarci nuovi finanziatori.

Ma è davvero questa l’unica strada? La più efficace? Come conciliare esigenze di comunicazione, di sensibilizzazione, di fundraising e di eticità? Forse alcune risposte innovative ci vengono da alcuni esperimenti di successo e da alcune riflessioni che cominciano da qualche tempo a circolare a livello internazionale. Gli esempi di successo si possono vedere, per esempio, in realtà come Charity Water, che con il supporto dei Depeche Mode ha dato vita a una campagna basata su immagini e valori fortemente positivi, senza rinunciare a informare sulla gravità del problema del mancato accesso all’acqua nei Paesi in cui intervengono. Ma c’è chi si è spinto oltre, basando la propria campagna di comunicazione e raccolta fondi esplicitamente sulla eliminazione del pietismo e dei pregiudizi, oltre che su immagini e valori ancora una volta eminentemente positivi. Si tratta dell’ONG Mama Hope. Qui si possono vedere alcuni video, dove lo slogan principale è “ferma il pietismo, sblocca il potenziale”.

 

A livello di riflessioni sul tema, mi permetto di segnalare un articolo pubblicato su DISEÑO SOCIAL che, oltre a sviluppare un interessante approfondimento, analizza esempi concreti e fornisce link a ulteriori documenti. È un articolo (in Spagnolo) la cui posizione è già evidente nel titolo: “Fare uscire dal mercato la solidarietà”, ma che non ha nulla di ideologico, perché analizza l’efficacia e l’eticità di diversi stili di comunicazione e conclude con la costatazione (onesta) che molto resta ancora da fare. Tuttavia, la cosa che personalmente mi ha colpito di più è il rischio di costruire un’unica storia, un unico immaginario “del povero e devastato terzo mondo” nei nostri destinatari, come racconta benissimo la scrittrice Nigeriana Chimamanda Adichie.

 

Il pericolo di “una storia unica”, la differenza fra i video basati sul pietismo e quelli di Charity Water o di Mama Hope aprono una questione complessiva su cui molto resta ancora da capire e da approfondire: quale narrazione le ONG possono e devono costruire nel contesto attuale per uscire dalla crisi (culturale, politica, economica, ambientale… ) in cui ci troviamo tutti?

*Global Citinzeship Education Specialist

 


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