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Prima era televisione.

L’esperienza di Daniele presso il Centro Sociale Pag-Asa di Tagaytay: “Non posso più chiudere gli occhi”

di Redazione

“Ero sempre alla ricerca di qualcosa che mi rendesse veramente felice e provavo di tutto. Qui, ho capito che la felicità che bramavo nelle cose, non l’avrei mai trovata. Un’altra felicità, vera e profonda era tutta da scoprire.”
E’ il gennaio del 2012 quando Daniele De Patre arriva al "Pag-asa Social center" e fa un’esperienza che gli cambia la vita profondamente.

I volti di quella gente e la povertà di quegli ambienti, spesso visti in tv, ma sentiti lontani, diventano qualcosa di tangibile.

A Tagaytay, quartiere periferico di Manila, nelle Filippine, le case sono costituite da una sola stanza col pavimento in terra battuta e senza acqua corrente. Le famiglie non hanno accesso ai servizi sociosanitari e non hanno opportunità lavorative.

In questa zona rurale e povera, molti bambini sono abbandonati a se stessi, e spesso non hanno un’identità legale, per cui rimangono esclusi dai servizi sociali primari, quali l’educazione, la salute ed eventuali supporti economici. Restano in balia di lavori inumani e di attività criminose.

Il Centro, attraverso il sostegno a distanza di Azione per Famiglie Nuove, svolge numerose attività in campo sanitario educativo e della formazione professionale, con un accompagnamento per 400 minori. L’ambulatorio medico annesso tratta pazienti con disabilità permanenti. E’ qui che, come fisioterapista volontario, Daniele comprende la necessità di un diverso approccio terapeutico, impostato su una continua interazione e un rapporto di scambio reciproco con i pazienti.

Traducendo le letterine, che i bambini sostenuti a distanza scrivono ai donatori, Daniele si sente coinvolto nel loro mondo. Percepisce le gioie, le difficoltà le speranze di quei ragazzini, che poi durante le visite nei barrios osserva e incontra di persona.

La vita a Teramo, città di provenienza di Daniele, è lontana per lui, così come i suoi 26 anni, trascorsi tra lavoro e uscite con amici.
“Il vedere situazioni di povertà molto profonde e radicate è stato difficile all’inizio da accettare”. – commenta – “Avrei voluto fare mille cose per dare una mano, ma pian piano, ho anche scoperto una solidarietà ed una generosità reciproca tra le persone che a volte mi ha fatto pensare che il vero paese ad essere in difficoltà era forse il mio, con l’indifferenza, l’isolamento e la chiusura d’animo…”

“Una volta – racconta – siamo giunti in un barrio così infangato che non era davvero possibile salire la collina con le infradito. Così io e Heero abbiamo lasciato le ciabatte in fondo alla via. Di ritorno non c’erano più… qualcuno le aveva prese, ma dopo due giorni le abbiamo ritrovate al centro sociale”.
Daniele si ricorda anche quando per sbaglio è rimasto chiuso nella stanza delle traduzioni del Centro e non sapeva più come uscire, ma una persona ha così avuto la brillante idea di costruire una sorta di scala pericolante che arrivasse fino alla finestra. “Io pensavo intendesse farci scendere da lì, – dice – ed ero già tutto impaurito perché era molto alto e invece, è stato lui a venire sopra e rischiare per noi!”

Inizia per Daniele ‘una gara d’amore’ nel salutare tutti, i genitori, i bambini, le maestre e portare loro un piccolo sacchetto di caramelle: “in ogni atto di generosità ho trovato tutto quello che cercavo… – commenta – la vita è molto più di ciò che si può contare o misurare.” 

“Non mi scorderò ad esempio – continua – quel giorno in cui siamo andati a far visita ad un barrio, pioveva così tanto che ci eravamo praticamente persi, ma tre bambini ci hanno visto e raggiunto sotto la pioggia, e felicissimi ci hanno fatto da guida.”

Daniele realizza quanto tutto ciò che di più minimo lui aveva nella sua vita agiata a Teramo, gli è stato donato come un regalo gratuito, mentre qui di gratuito non c’è nulla: bisogna sudare arduo per provvedere a tutto, cibo, abiti, medicinali e qualsiasi altra cosa. Scrive: “Così come io sono nato in Italia arbitrariamente, un mio fratello nasce adesso in Africa ed un altro in Brasile, ed una altro ancora nelle Filippine e la loro condizione sarà destinata ad essere diversa dalla mia, povera e sofferente. Per questo non posso più chiudere gli occhi ed essere egoista. Non posso tappare le mie orecchie e fare finta che il mio fratello se la caverà senza il mio aiuto, non posso legarmi le mani e pensare che il resto non esiste.”

“Non posso, mio fratello essendo tale, ha bisogno di me. – continua Daniele. – E quando realizzo poi che questo bisogno per me è un contributo possibile, sento il cuore esplodermi nel petto e ho voglia di correre per dare subito il mio apporto alla realizzazione della più bella delle speranze. Voglio anch’io mettere un mattone – continua ancora Daniele – per la costruzione di un mondo in cui io e i miei fratelli possiamo mangiare allo stesso modo, avere entrambi la facoltà di studiare e istruirci, avere il modo di vestirci e di giocare senza elemosinare, avere un tetto ed un letto sul quale poggiare il capo la notte e sognare che, finalmente, un mondo più giusto non rimane soltanto un’utopia.

 

 


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