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Vita da operatore sociale (se è vita)

I pagamenti arrivano con anni di ritardo o, peggio, non arrivano. La precarietà è selvaggia e i contratti quasi non esistono e, anche quando esistono, nessuno sembra considerarlo lavoro. Sta crescendo il divario tra gli ideali che spingono molti ragazzi a intraprendere il (duro) mestiere dell'operatore sociale e chi, spesso al vertice di organizzazioni e istituzioni, all'ideale ha sostituito lo pseudovalore del business

di Marco Ehlardo

“Molti mi chiedono: «Chi te lo fa fare?». Oppure: «Perché non ti cerchi un lavoro vero?». Alla prima domanda francamente non so più cosa rispondere se non che lo faccio per passione. La seconda, invece, mi fa sempre decisamente incazzare. Sgobbare fino a dieci ore al giorno per sei giorni a settimana non è un lavoro vero?

Negli ultimi tempi, grazie all’interesse suscitato dal mio libro “Terzo settore in fondo – Cronistoria semiseria di un operatore sociale precario” (da cui è tratta la citazione in apertura) e dai miei articoli su "Vita", sono stato contattato da diversi operatori sociali da tutto il territorio italiano, ed ho avuto l’occasione di incontrare gli studenti di alcune scuole.

E, dalla mia attuale posizione che definirei sicuramente più privilegiata di altre, mi sono (ri)fatto un quadro piuttosto chiaro della situazione.

Dal lato degli operatori sociali permangono, anzi si rafforzano, alcuni elementi di difficoltà e di vero e proprio sfruttamento legati sia alla condizione contrattuale che a diverse forme di soprusi subiti da alcune organizzazioni datrici di lavoro.

La forma più diffusa di contratto resta quella a progetto, anzi sostanzialmente quasi l’unica. Nei rari casi di forma contrattuale diversa da quella a progetto, si parla semmai di prestazione occasionale, che è anche peggio.

Se in realtà la collaborazione a progetto è più che altro una collaborazione stabile nascosta (ad esempio con orari stabiliti, sede di lavoro etc., tutte fattispecie che sarebbero vietate per questo tipo di contratto), la collaborazione occasionale è ancora più subdola.

Dei due requisiti previsti da questa forma di contratto, viene ovviamente (figuriamoci!) rispettato quello del limite dei 5000 euro massimi in un anno, quasi mai quella dei 30 giorni di lavoro complessivi nello stesso anno.

Riguardo ai soprusi ed ai ricatti, gli esempi e la fantasia di alcune organizzazioni non hanno limiti. Diffuso è quello che chiamerei il “contributo volontario obbligatorio”: in pratica si riconosce al collaboratore (e, cosa altrettanto grave, si rendiconta al finanziatore istituzionale) un compenso orario o mensile, e poi si detrae di default una quota a beneficio dell’organizzazione. Non puoi rifiutarti, altrimenti, in lista di attesa, di collaboratori disposti ad accettare questo ricatto ce ne sono a iosa.

Alla fine si arriva anche a compensi orari ben al di sotto dei 10 euro, il che, se non fosse drammatico, farebbe quasi ridere. I pagamenti rimangono spesso incostanti, saltuari e con tempi molto dilazionati rispetto alla prestazione effettuata. Altra forma di ricatto: o resti con noi e aspetti che ogni tanto ti paghiamo, o puoi anche andare via, magari farci causa, tanto coi tempi della giustizia italiana quei soldi li vedi (se li vedi) tra diversi anni.

Ma la cosa che continua a colpirmi di più è la crescente divaricazione tra i principi che portano un operatore sociale ad intraprendere questo lavoro e quelli (sempre meno) sottintesi di alcune organizzazioni. Sempre più operatori sociali si rendono conto che quello che per loro è un impegno a favore degli ultimi, degli emarginati, di chi soffre, dall’altra parte (ormai spesso controparte) è semplicemente un business. E i livelli di partecipazione dei lavoratori alle decisioni ed alle strategie delle organizzazioni sono pressoché nulli, con buona pace di strutture che si direbbero “associative”.

Ad un quadro così disarmante si associa da un lato la consapevolezza della necessità di un nuovo protagonismo degli operatori sociali, ma dall’altro un progressivo sfaldamento dei movimenti e delle strutture pseudo-sindacali nate in questi anni dal basso (i sindacati ufficiali, diciamocela tutta, di precariato non se ne occupano nemmeno di striscio; d’altronde un precario non ha busta paga costante ergo non si possono detrarre automaticamente le quote per il sindacato).

Da soli, ormai, sembrano non avere più la forza di opporsi a tutto questo. Dagli incontri con gli studenti emergono conferme di un senso comune diffuso legato al lavoro di operatore sociale: un supereroe con un bellissimo hobby, e poco più. Passi per il supereroe, certamente esagerato; ma va riconosciuto se non altro che senza gli operatori sociali il welfare di questo Paese sarebbe bello che morto da tempo immemore.

Ma l’hobby? La Treccani lo definisce come “Occupazione, diversa da quella a cui si è tenuti professionalmente, alla quale ci si dedica nelle ore libere, per svago ma con impegno e passione”.

Impegno e passione sono certamente presenti e necessari (d’altronde senza passione chi farebbe un lavoro difficile, spesso sottopagato e a volte frustrante come questo?).

Vogliamo discutere del resto della definizione? Direi che non serve. Si percepisce comunque che l’operatore sociale debba necessariamente essere un po’ “sfigato”; insomma più Spiderman che Superman. In definitiva ne esce un quadro in cui il mondo della tutela degli ultimi crea quantomeno “penultimi”. 

E i penultimi da soli non ce la fanno più a cambiare lo stato delle cose. Ed è giunto decisamente il momento in cui i penultimi si uniscano agli ultimi, in un grande movimento che ragioni ed agisca assieme su come ridefinire il welfare in questo Paese.

Chi c’è batta un colpo.

 

Marco Ehlardo (Napoli, 4 febbraio 1969) ha lavorato per oltre dieci anni a Napoli in servizi per migranti, coordinando un programma di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo. Dal 2011 ricopre il ruolo di Referente per la Campania di ActionAid Italia. Di recente è uscito per la Edizioni Spartaco il suo primo libro  “Terzo settore in fondo: cronistoria semiseria di un operatore sociale precario.


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