Economia & Impresa sociale 

Appalti al sociale, qui non c’è gara

Tutti i numeri, settore per settore, degli affidamenti sui servizi di welfare nelle grandi città. Le procedure aperte sono l'assoluta minoranza. E in alcuni comparti in grandi metropoli come Milano e Roma non superano addirittura lo 0%. In allegato la tabella con le cifre relative ad ogni centro di spesa

di Francesco Dente

Il linguaggio è quello istituzionale dei comunicati ufficiali. Toni pacati, verbi misurati, termini scrupolosamente ponderati. Nella sostanza però si tratta della classica tirata d’orecchie. Tanto più sonora se le dita, come in questo caso, sono quelle del presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), Raffaele Cantone. I venti comuni capoluogo di regione italiani, questo il richiamo, ricorrono a troppi affidamenti con procedura negoziata. Fanno, insomma, poche gare aperte. Cosa sono le procedure negoziate? Sono le procedure nelle quali le stazioni appaltanti consultano gli operatori economici scelti da esse stesse e negoziano con uno o più di essi le condizioni dell’appalto.

In base al monitoraggio effettuato dall’Authority, nel quadriennio 2011-14 circa la metà dei venti municipi presi in esame ha affidato con procedura negoziata l’80% degli appalti complessivi. Ben il 20% in più della media nazionale. L’Anac ha calcolato anche gli importi delle procedure negoziate: in questo caso ha registrato invece una percentuale inferiore alla media nazionale, pari, quest’ultima, al 34,66%. Segno che la maggior parte dei contratti è di importo modesto. Vita ha provato a estrapolare dai dati dell’Anac i numeri degli appalti nel settore dei servizi sociali. Per la precisione ha considerato i principali centri di costo che attengono al welfare comunale di sedici comuni: minori, anziani, immigrati, persone disabili. Ma anche, in alcuni casi, sport, istruzione, politiche giovanili. Non è detto, va sottolineato, che queste rappresentino tutte le voci dell’assistenza comunale; in alcuni casi le spese sociali potrebbero essere state ricomprese sotto altri capitoli. Sedici capoluoghi anziché venti perché nelle tabelle dell’Authority i centri di costo di Aosta e Campobasso sono indicati con i numeri delle Aree amministrative, e dunque non si può risalire a quali servizi corrispondano. Trento e Palermo, perché, come precisa la stessa Anac, i dati potrebbero risentire degli effetti di specifiche norme di settore emanate dagli enti territoriali di appartenenza, l’uno provincia autonomia e l’altro regione a statuto speciale. Si tratta, ad ogni modo, di una mole di dati probabilmente finora mai analizzata. Ben 8.114 appalti nel welfare per un totale di 1,7 miliardi di euro.

se si considera il numero complessivo delle tipologie di scelta del contraente da parte dei sedici comuni, emerge che le procedure negoziate rappresentano ben l’86,55% del totale degli appalti dei servizi sociali

Ebbene, se si considera il numero complessivo delle tipologie di scelta del contraente da parte dei sedici comuni, emerge che le procedure negoziate rappresentano ben l’86,55% del totale degli appalti dei servizi sociali. Se invece si fa riferimento agli importi delle procedure negoziate, la quota è del 61,43%. Il doppio della media nazionale (34,66%). Dati complessivi, dicevamo. Da prendere dunque con le pinze. Per avere il polso della situazione bisogna guardare infatti le singole voci di costo dei singoli comuni (NEL FILE ALLEGATO LA TABELLA CON TUTTI I DETTAGLI) . Dai dati elaborati da Vita risulta che la percentuale di procedure negoziate sul totale degli appalti supera l’80% in metà dei centri di costo considerati (25 su 50). La percentuale più alta è toccata da Milano che realizza il 100% di procedure negoziate (265 su 265) negli affidamenti relativi al settore Servizi adulti, inclusione sociale e immigrazione (importo totale 5,5 milioni di euro). La più bassa, anzi le più basse, si registrano a Venezia che ha assegnato con procedure aperte, le più trasparenti, sia i contratti della Direzione Politiche sociali partecipative e dell’accoglienza (13 su 13) per un importo di 46 milioni di euro, sia del centro di costo riportato come Settore politiche educative (3 su 3) per un importo di 7,8 milioni di euro. Zero aggiudicazioni negoziate, dunque.

A Milano la percentuale di procedure aperte negli affidamenti relativi al settore Servizi adulti, inclusione sociale e immigrazione (importo totale 5,5 milioni di euro) è pari allo 0%

Come valutare questi dati? L’Anac non si sbottona più di tanto. Nella nota a firma di Cantone è scritto che l’Authority ha comunicato alle amministrazioni le «criticità emerse» con l’intento di prevenire e contrastare «fenomeni distorsivi dell’azione amministrativa». Cantone, soprattutto, fa due osservazioni. Sottolinea che i dati «dimostrano l’utilizzo eccessivo» delle procedure negoziate e ribadisce che nell’applicazione del codice dei contratti pubblici «va adottata come regola la procedura aperta e come eccezione, da motivare, la procedura negoziata». Si tratta, meglio ripeterlo, di procedure legittime ma usate in misura eccessiva. Il comunicato dell’Anac, conviene precisarlo, sintetizza l’esito di un monitoraggio che ha riguardato gli affidamenti complessivi nelle tre tipologie di contratti, e cioè lavori, servizi e forniture comunali. Dai servizi demografici dunque alle opere pubbliche. Non entra nello specifico del welfare comunale. Il punto, quanto alle procedure negoziate, è che lo stesso Codice degli appalti (d.lgs 163/2006) esclude gli affidamenti dei servizi sociali dall’applicazione integrale della normativa sulle procedure oggettive di scelta del contraente. L’articolo 20 prevede infatti che ai servizi inclusi nell’Allegato II B, fra cui rientrano appunto i servizi sociali, si applicano soltanto le norme sulle specifiche tecniche (art.68), sull’avviso sui risultati della procedura di affidamento (art.65) e sugli avvisi relativi agli appalti aggiudicati (art.225). L’amministrazione, in sostanza, può indicare solo le caratteristiche del servizio richiesto e rendere note l’esito della gara. Ma c’è di più. L’articolo 27 del Codice degli appalti prevede inoltre che in questi casi l’affidamento dei contratti avvenga nel rispetto solo dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, pari trattamento, trasparenza e proporzionalità. Agli appalti del sociale, dunque, non si applicano (in quanto non esplicitamente richiamati) gli altri principi generali fra cui, in particolare, i principi di pubblicità, libera concorrenza, non discriminazione. Sempre il 27, specifica che l’affidamento deve essere preceduto «da invito ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con l’oggetto del contratto». Dunque è la stessa normativa sugli appalti che, in un certo senso, “incoraggia” il ricorso alle procedure negoziate nell’affidamento dei servizi sociali. Forzando un po’ si potrebbe dire che nel welfare le procedure negoziate sono la regola e quelle aperte l’eccezione. Fermo restando, naturalmente, che nessuno obbliga le stazioni appaltanti a procedere solo tramite le negoziate. Anzi sono libere di effettuare gare aperte.

Come valutare allora i dati dell’Authority? Come la deriva di una prassi legittima o come l’approdo naturale di una proposito “caldeggiato” dalla stessa normativa? Non va dimenticato peraltro che l’Atto di indirizzo sui sistemi di affidamento dei servizi alla persona (Dpcm del 30.3.2001) emanato in attuazione della legge sul Sistema integrato dei servizi sociali (L.328/2000) invita proprio a «privilegiare le procedure di aggiudicazione ristrette e negoziate». Ma, si dirà, l’Atto e la 328 hanno perso “vigore” dopo la riforma costituzionale del 2001 che ha affidato i servizi sociali alle Regioni.

Per capirci qualcosa in più bisogna mettere il naso fra i singoli tipi di procedure adottate. Salta all’occhio il ricorso alla procedura negoziata “senza previa pubblicazione di un bando di gara” e agli “affidamenti diretti”. Nel campione preso in esame da Vita, le prime rappresentano il 35,9%, i secondi il 27,7%. Vediamo, in concreto, quando è possibile aggiudicare tramite procedure senza bando (purché se ne dia adeguata motivazione). Secondo l’articolo 57 del Codice degli appalti, innanzitutto qualora, dopo aver tentato una procedura aperta o ristretta, non sia stata presentata nessuna offerta oppure nessuna risulti appropriata. Bisogna dunque prima esperire una gara aperta. O ancora, quando per ragioni tecniche il contratto possa essere affidato solo a un operatore economico determinato; quando l’estrema urgenza (risultante da eventi imprevedibili per le stazioni appaltanti) non sia compatibile con i termini imposti dalle procedure aperte; quando il contratto faccia seguito a un concorso di progettazione. E infine: per servizi complementari non compresi nel progetto iniziale (ma diventati necessari) e per nuovi servizi consistenti nella ripetizione di servizi analoghi già affidati all’operatore economico aggiudicatario. In quest’ultimo caso le amministrazioni possono di fatto prorogare l’appalto. Soltanto però nei tre anni successivi al contratto iniziale. Come agiscono le stazioni appaltanti nelle negoziate senza bando? Individuano gli operatori economici da consultare sulla base di informazioni desunte dal mercato, ne selezionano almeno tre, li invitano a presentare le offerte e infine scelgono quello che ha offerto le condizioni più vantaggiose.

Vediamo i dati. Il centro di costo che in termini percentuali effettua più procedure negoziate senza bando sul totale delle aggiudicazioni è il Servizio minori adulti e famiglia di Trieste (85,2%), seguono i Servizi politiche infanzia e adolescenza di Napoli (84%) e il Settore istruzione di Bologna (82,9%). Il numero più alto in valore assoluto spetta invece al Dipartimento promozione dei servizi sociali di Roma con 1143 procedure su 1796 appalti.

Come leggere i dati sulle procedure negoziate? Franco Pesaresi, coordinatore dell’Ambito territoriale sociale 9 delle Marche ed ex dirigente dei Sevizi sociali di Ancona, individua due cause entrambe legate alla congiuntura economia. «La crisi, da un lato ha aumentato la pressione dei fornitori locali, delle cooperative soprattutto, affinché si tenga conto maggiormente del radicamento territoriale e si riduca la competizione troppo ampia, dall’altro ha determinato la diminuzione del personale pubblico degli enti. La gara aperta, sebbene più trasparente, è molto impegnativa in termini di ore di lavoro del personale, mentre la negoziata è più semplice e più breve. C’è una differenza di 4 mesi in più». Aggiunge un altro motivo Sergio D’angelo, direttore del consorzio Gesco di Napoli ed ex assessore al Welfare della giunta De Magistris. «Mi rifaccio alla mia esperienza: si ricorre alle procedure negoziate quando, ad esempio, non si dispone in tempo delle risorse economiche. Alle amministrazioni spesso manca un’adeguata cultura a programmare su base pluriennale. Si procede dunque con soluzioni temporanee». Numeri così importanti potrebbero essere, insomma, il sintomo di una sofferenza della macchina amministrativa, a volte sovraccarica di lavoro. Una tesi che non convince del tutto Giuseppe Guerini, presidente di Federsolidarietà. Che, infatti, rincara la dose. «Spesso è una questione di pigrizia delle stazioni appaltanti. Scelgono la strada che semplifica, che non gli complica la vita, perché fare una valutazione è complicato e costa molto più lavoro», taglia corto. Il numero uno della centrale cooperativistica bianca punta il dito anche contro i rischi legati alla discrezionalità. «Se si invitano pochi soggetti è più facile che nascano fenomeni di distorsione. Cosa accade in alcuni casi? Il comune sceglie tre operatori, magari quei tre operatori decidono in qualche misura di non darsi particolarmente fastidio l’un l’altro, e quindi fanno delle offerte negoziate a monte, in maniera torbida». Va ricordato comunque che i municipi selezionano gli operatori da albi di fornitori e che attuano la rotazione fra gli aggiudicatari.

La gara aperta, sebbene più trasparente, è molto impegnativa in termini di ore di lavoro del personale, mentre la negoziata è più semplice e più breve. C’è una differenza di 4 mesi in più»

Franco Pesaresi (ex dirigente pubblico)

Non si può negare, tuttavia, che la genericità di alcune disposizioni di legge, la sovrapposizione di norme comunitarie, nazionali, regionali e comunali e la giurisprudenza non sempre univoca della corte europea e dei tribunali amministrativi italiani, finiscono col dilatare i margini di discrezionalità delle stazioni appaltanti. Margini che si ampliano negli affidamenti in economia-affidamenti diretti, la seconda procedura più gettonata nel sociale secondo le rilevazioni di Vita. I comuni, in questo caso, gestiscono direttamente (in economia appunto) il servizio con mezzi e personale propri o, più di frequente, lo affidano a soggetti esterni. Il Codice consente l’acquisizione con tale procedura (art.125) solo in quattro casi: risoluzione di un precedente rapporto contrattuale, necessità di completare le prestazioni (non previste) di un contratto in corso, prestazioni periodiche nelle more della nuova gara, urgenza determinata da eventi imprevedibili. Come si vede si tratta di casi eccezionali. Eppure i numeri sembrano dire il contrario: si contano 2.247 affidamenti diretti su ottomila e passa gare. Anche qui, tuttavia, non si può fare di tutt’erba un fascio.

Bisogna considerare i singoli centri di costo. I picchi più alti di affidamenti diretti sul totale degli appalti si registrano a Milano nei settori handicap e salute mentale (89,5%), Firenze per i servizi sociali e sport (84,4%), Bari solidarietà sociale (73%), Trieste area cultura e sport (70,5%), Roma servizi educativi (70,1%). Va tenuto presente, particolare non di poco conto, che la legge consente l’affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento per le assegnazioni sotto i 40mila euro. Decide il dirigente con una semplice determinazione. Non serve, insomma, nemmeno la delibera di Giunta. Cantone, a tal proposito, mette in guardia i comuni da un uso disinvolto di questa procedura. Bisogna evitare, rimarca, che venga utilizzata «impropriamente» o «artatamente» per l’aggiudicazione di appalti «artificiosamente frazionati». Non spezzettate gli appalti in micro procedure sotto i 40mila euro per poi affidarle direttamente, sembra sussurrare Cantone. Come correggere la rotta? «Talvolta le amministrazioni non fanno la gara perché vogliono governare meglio il processo di selezione attraverso gli inviti. Ma la gara aperta o la procedura negoziata con pubblicazione non impediscono certo di fare le cose per bene. Serve individuare requisiti di qualità tramite gli accreditamenti, seguire procedure tracciabili e ampliare la valutazione a una pluralità di soggetti», propone Guerini. Sulla stessa lunghezza d’onda D’Angelo che cita l’esperienza del Registro cittadino degli organismi del terzo settore (Reco) di Napoli. «Quando facevamo le procedure negoziate invitavamo tutti gli operatori iscritti nel registro». Pesaresi, infine, suggerisce di rapportare le procedure agli importi delle gare: tanto più aperte e trasparenti quanto più alto è l’importo dell’appalto. E di rimettere mano, soprattutto, al Codice degli appalti. «È disegnato sui lavori pubblici. Basti pensare al tema delle “offerte anomale”. Se un’offerta prende un punteggio elevato sia nell’offerta tecnica che in quella economica diventa automaticamente anomala. Non si può aggiudicare e si allungano i tempi perché bisogna chiedere spiegazioni alle imprese. Il guaio è che a volte non si sa neanche che giustificazione chiedere a un operatore che magari ha presentato un ribasso solo del 2%».

Talvolta le amministrazioni non fanno la gara perché vogliono governare meglio il processo di selezione attraverso gli inviti

Giuseppe Guerini, Alleanza cooperative sociale

Un’occasione per rivedere le regole potrebbe essere la legge delega per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale. Per ora la delega si limita ad annunciare che i criteri e le modalità dovranno essere «improntati al rispetto di standard di qualità e impatto sociale del servizio, obiettività, trasparenza e semplificazione, nonché criteri e modalità per la valutazione dei risultati ottenuti».


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