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Cooperazione & Relazioni internazionali

Il governo turco e quei tentennamenti di fronte agli islamisti

Il leader del partito di opposizione filo-curdo Selahattin Demirtas, commentando i fatti di Parigi ha detto: «sappiamo bene chi ha usato IS negli attacchi di Suruc, Diyarbakir e Ankara» aprendo così il dibattito: perché c’è voluto così tanto prima che la Turchia si decidesse ad affrontare la minaccia Isis dentro e fuori dei suoi confini?

di Eleonora Vio

A poche ore dalla carneficina nella capitale francese, in Turchia il leader del partito di opposizione filo-curdo Selahattin Demirtas ha espresso pubblicamente la sua indignazione. «Prima di tutto condanno gli attacchi di Parigi», ha detto. «Sfortunatamente noi non siamo estranei a questo tipo di massacri in Turchia e speriamo che gli stati e sovrani che supportano e impiegano lo Stato Islamico (IS) si addossino una parte di colpa». Come se il messaggio non fosse chiaro a tutti, ha poi aggiunto: «Noi sappiamo bene chi ha usato IS negli attacchi di Suruc, Diyarbakir e Ankara» – avvenuti rispettivamente a luglio, giugno e ottobre di quest’anno.

Sebbene in questi giorni di lutto, di fronte alla paura e alla rabbia che attanagliano indistintamente il Medio Oriente, l’Europa, gli Stati Uniti e pure la Russia, le recriminazioni provenienti da una parte o dall’altra dell’arena politica facciano storcere il naso, l’accusa di Demirtas apre nuovi importanti interrogativi sulle responsabilità del governo turco di fronte all’avanzata, e alla sempre più chiara minaccia globale, del movimento jihadista.

Alcuni ufficiali turchi hanno dichiarato di aver sventato “una serie di grossi attacchi terroristici”, che avrebbero preso di mira le città di Ankara, Izmir, Antalya (sede del summit del G20) e Istanbul (nello stesso giorno degli attentati parigini). Inoltre, le forze speciali turche dicono di aver incastrato un'estesa cellula islamista a Gaziantep, nel sud-est del Paese, e deportato e interrogato otto militanti dell’ISIS in viaggio dal Marocco. Tra gli arrestati anche Aine Lesley Davis, compagno del noto “Jihadi John”, che Washington sostiene di aver ucciso con l’attacco lanciato da un drone, di cui condivide non solo la nazionalità britannica ma anche un ruolo da stratega nel sequestro e uccisione di prigionieri stranieri.

A ulteriore dimostrazione dell’impegno assunto contro i miliziani jihadisti e della necessità, rimarcata a più riprese durante il G20 appena conclusosi, di “una migliore cooperazione internazionale tra le agenzie di sicurezza,” le autorità turche hanno ribadito di aver avvertito per ben due volte le controparti francesi del pericolo rappresentato da Omar Ismail Mostefai, uno dei giovani attentatori di Parigi, ma senza successo. Il 29enne parigino, che si è tolto la vita dopo aver concausato la morte di più di 80 giovani nella sala concerti Bataclan, era entrato in Turchia nel 2013 e aveva poi fatto perdere le tracce.

“La Turchia ha cominciato a vietare l’ingresso nel Paese a una lista di persone, che oggi conta più di 26,000 nomi, nel 2011. A queste si aggiungono le 2,500 che sono state deportate a seguito di misure preventive dirette ai presunti combattenti stranieri,” ha detto una fonte diplomatica turca a VITA, alludendo a come le autorità facciano del loro meglio ma la situazione sfugga a qualsiasi controllo. “Per non parlare dei nuovi sistemi di sicurezza adottati negli aeroporti e ai confini con la Siria: fino a oggi più di 1,400 sospetti sono stati respinti.” A supporto della controparte turca, durante il G20 il Segretario di Stato americano John Kerry si è impegnato a “chiudere gli ultimi 98 chilometri – a fronte dei 900 totali – rimasti aperti tra Turchia e Siria” e, così facendo, “a scalzare l’ISIL (l’ISIS secondo gli Stati Uniti) dalla zona di confine, e interrompere i traffici di combattenti e merci tra i due paesi.”

L’opinione pubblica internazionale per molto tempo non ha voluto vedere i pericolosi strascichi della guerra siriana nei paesi limitrofi. La Turchia, dal canto suo, ha posticipato l’entrata nella coalizione contro l’ISIS – offrendo agli Stati Uniti la base militare di Incirlik da cui sferrare attacchi aerei in Siria – fino a dopo l’attacco di Suruc, che ha visto la morte di 32 giovani attivisti. Inoltre, ha cominciato a implementare i sistemi di sicurezza sul territorio, portando a termine blitz contro le cellule islamiste sparse nel Paese e monitorando più attentamente i suoi porosi confini, solo dalla strage di Ankara del mese scorso, quando più di 102 dimostranti sono stati uccisi.

Perché c’è voluto tanto prima che la Turchia si decidesse ad affrontare la minaccia islamista dentro e fuori dei suoi confini? “Basandosi sui dati riguardanti i finanziamenti ricevuti dallo Stato Islamico (o ISIS o ISIL), a permetterne l’avanzata sono stati 40 paesi, tra cui alcuni membri del G20 stesso,” ha affermato senza indugi il Presidente russo Vladimir Putin qualche giorno fa. Tralasciando le responsabilità degli altri paesi, quelli del Golfo su tutti, i legami economici tra Turchia e ISIS sono acclarati.

Quando il 31 luglio le forze speciali statunitensi hanno fatto irruzione nel compound del tunisino Abu Sayyaf, leader dell’ISIS basato nell’est della Siria e responsabile del traffico di petrolio per il gruppo dal 2013, è emersa la sua stretta collaborazione con diversi compratori turchi, pronti ad accoglierlo in Turchia in cambio di prezzi di favore al mercato nero. Proprio con le entrate accumulate dal petrolio – stimate tra 1.2 e 5 miliardi di euro – in soli sei mesi l’ISIS ha cambiato profilo. “Da ambiziosa forza con mezzi limitati,” come lo definiva il The Guardian a luglio scorso, “l’ISIS è diventato un titano che continua ad attirare forze occidentali nella regione e a mettere alla prova i confini statali.”

Se a livello regionale il permissivismo della Turchia di fronte al via vai di combattenti, armi e beni verso la Siria, si spiega in termini economici, dal punto di vista interno ha a che fare con l’avanzata delle forze curde del PYD – supportate dagli Stati Uniti ma considerate alla pari di terroristi affiliati al Movimento Curdo dei Lavoratori (PKK) dal governo turco – nel nord-est della Siria, cioè in una zona di forte contesa con gli islamisti.

Per timore che le rivendicazioni dei curdo siriani, e la creazione della regione autonoma del Rojava con Kobane liberata come capoluogo, si traducessero in nuove conquiste, e avessero ripercussioni sulle ambizioni dei curdi nostrani, il governo turco non ha ostacolato il libero movimento e il rinforzo delle milizie jihadiste, sia in termini di armi che di uomini, nelle località di confine. Le fonti diplomatiche tagliano corto dicendo che, “Il pieno controllo dei confini è sempre una questione complicata e in modo particolare quando non c’è un vuoto di potere e più di un gruppo terroristico di là del confine”, ma Matthew Helman del Centro di Insurrezione e Terrorismo Jane (IHS) è di ben altro parere: “Le autorità sono più preoccupate dell’aumento di potere dei curdi che dall’espansione dell’ISIS.”

Nulla di certo è trapelato dalle bombe scoppiate al comizio del partito filo-curdo HDP due giorni prima delle elezioni parlamentari di giugno, ma con l’attacco di Suruc avvenuto a un mese di distanza il quadro si è chiarito. Da un lato, la Turchia ha accontentato gli Stati Uniti garantendo appoggio verbale alla coalizione, e offrendo la base di Incirlik, come si diceva sopra, ma, dall’altro, ha cominciato indisturbata una sua personale offensiva contro il PKK nel Kurdistan iracheno e turco come risposta alla presunta uccisione di alcuni poliziotti da parte della guerriglia curda.

Tale status quo è durato fino al 10 ottobre, giorno del massacro di Ankara durante un corteo pacifista. Sebbene abbia impiegato più del dovuto a pronunciarsi, alla fine il governo turco si è deciso a riconoscere pubblicamente i colpevoli dietro all’attacco. Ma, quando il Primo Ministro Davatoglu è salito sul palco e ha affermato che, “Daesh (acronimo arabo per ISIS) e il PKK hanno entrambi giocato un ruolo attivo nell’incidente appena accaduto,” in tanti sono rimasti senza parole. La Turchia, sotto i riflettori per via delle elezioni dell’1 novembre e per il ruolo strategico nella gestione del flusso di migranti verso l’Europa, da quel momento ha sì cominciato a pronunciarsi con più convinzione contro l’ISIS, ma ha anche portato avanti la sua guerra personale e senza esclusione di colpi contro i curdi del sud-est.

L’approccio del governo turco rispetto all’ISIS sarà pure “crystal clear” – come l’ha definito una fonte diplomatica a VITA, facendosi scudo di come il movimento sia stato dichiarato terrorista in Turchia già a partire dall’ottobre 2005 – ma i quasi quattro anni di scambi di favori attraverso il confine hanno portato “allo stanziarsi di migliaia di agenti e cellule dormienti dell’ISIS in tutto il Paese,” spiega Helman. Non c’è dubbio che per prevenire attacchi come quelli di Parigi o Ankara in futuro ci sarà bisogno di una maggiore “cooperazione internazionale”, come ha affermato il Premier turco ad Antalya, ma se si è giunti a questo punto di non ritorno, le responsabilità sono di tutti. E in particolare alcuni, più che di altri.


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