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Dall’abbandono allo sviluppo. Ecco come si fa

Nel fine settimana esce il nuovo numero di Vita Bookazine in edicola e nelle librerie Mondadori. L'intervento dell'autrice di Cade la Terra finalista al Premio Campiello 2015: «Chi si occupa di luoghi abbandonati è abituato a intravedere una possibilità nelle cose lasciate a perdersi, nell’inutile; a cercare la bellezza in una molteplicità di brandelli; a interrogare la polvere che il tempo ha sparpagliato»

di Carmen Pellegrino

Succede che un paese scompaia. In un certo momento della sua storia, e per diverse ragioni, può accadere che un paese si ritrovi disabitato. Quando accade, non resta che lo spettro del nome, se sopravvive in qualche mappa. E non resta che il vecchio abitato, vuoto di tutto e prossimo a trasformarsi in un mucchio di ruderi. Chi si occupa di luoghi abbandonati è abituato a intravedere una possibilità nelle cose lasciate a perdersi, nell’inutile; a cercare la bellezza in una molteplicità di brandelli; a interrogare la polvere che il tempo ha sparpagliato. Andare per luoghi abbandonati è entrare in scampoli di mondo fuori da ogni possibile rispondenza. Sì, ma da un punto di vista più concreto? Spesso mi viene rivolta questa domanda, perché l’avvicinamento letterario all’abbandono – scrivere il silenzio – è bello e suggestivo, ma poi bisogna passare a un piano di maggiore concretezza. Cosa farne, dunque, dei borghi abbandonati, dopo averli cercati, visitati, dopo averne in vario modo parlato o scritto?

Carmen Pellegrino, classe 1977, storica, saggista e scrittrice, nella cinquina finalista al Premio Campiello 2015 con il romanzo Cade la terra (Giunti editore). Percorre da diverso tempo l'Italia di borghi, case, stazioni, teatri e ogni altro edificio significativo lasciato nell'abbandono, puntando a recuperarne le vicende storiche e umane.

Per prima cosa direi che è prerogativa di ognuno divenire abbandonologo, semplicemente affinando lo sguardo e posandolo intorno, fra le pietre, nelle crepe, fuori dalla nostre città; oppure dentro il perimetro urbano, soffermandosi nei vuoti fra gli spazi sovraffollati, dove ci sarà sempre un abbandono che aspetta solo di essere visto. Disporsi quindi in una condizione di empatia con quella che Hillman definisce anima dei luoghi è il solo metodo richiesto a un abbandonologo, secondo la mia esperienza.

Passando poi a un piano ‘di maggiore concretezza’, definirei virtuose le esperienze che consentono alle associazioni, ai gruppi di cittadini di prendersi cura di un bene abbandonato – per esempio, una casa cantoniera, una stazione – e farne un luogo per la collettività, di scambio e incontro.

C’è poi un esempio che ha del rivoluzionario. Mi riferisco all’esperienza di Riace (nella foto di apertura due rifugiate etiopi al lavoro nel borgo vecchio) , in Calabria, il cui sindaco, Mimmo Lucano, ha avuto il coraggio di mettere in condivisione con il ‘forestiero’ gli spazi del borgo, le cui case si erano progressivamente svuotate per l’emigrazione. Gli abitanti rimasti non erano più di 400. Un giorno – era il 1998 – arrivarono i curdi, che richiedevano asilo politico; poi sono venuti altri migranti, lembi di popoli in fuga, disperati. D’un tratto le case le strade le vecchie botteghe hanno ripreso a popolarsi. In questo sincretismo fra chi ha accolto e chi è arrivato, si è sperimentata una grande apertura ‘correndo il rischio’ del confronto: mondi ritenuti separati sono entrati in contatto, offrendosi reciprocamente nuova vita.

La solidarietà fra i margini – fra invisibili – è una delle pochissime pratiche rivoluzionarie del nostro tempo non eroico. Di questo tempo in cui per gli ultimi e più fragili – uomini e cose – sembra davvero non esserci più spazio. In una prospettiva di rispetto della persona umana e dell’anima dei luoghi, quell’altro mondo possibile, su cui a lungo abbiamo favoleggiato, può forse esistere di là, fra gli scampoli, in mezzo alle cose che non interessano più.


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