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Cooperazione & Relazioni internazionali

Salvati in 541, ecco le loro testimonianze

Stanno sbarcando in queste ore al porto di Reggio Calabria le 541 le persone recuperate al largo della Libia. «Mi hanno sequestrato», racconta Joseph, un ragazzo nigeriano. «Ci hanno torturato e costretto a chiamare i nostri parenti e chiedere un riscatto. Prendono un filo di nylon gli danno fuoco e te lo schiacciano sulla schiena: vogliono far sentire alla tua famiglia le urla»

di Anna Spena

Stanno sbarcando in queste ore al porto di Reggio Calabria, 541 persone. Perché sì, prima di essere migranti sono persone. Sono stati recuperati al largo della Libia, davanti a Sabratah. Le operazioni di soccorso sono state sei, e sono partite ieri all’alba. Per le operazioni di soccorso anche la Bourbon Argos di Medici Senza Frontiere.

Tra loro 72 donne e 7 bambini. E quello che fa capolino nella foto di copertina è Joseph, di appena un mese. Ha viaggiato con i genitori. La sua mamma, Olamide, una ragazza nigeriana di 27 anni, appena è arrivata a bordo della Bourbon Argos ha iniziato ad allattarlo.

«È stato impossibile tenerlo tra le mie braccia durante la traversata, ero schiacciata nel gommone con altre 120 persone, non riuscivo nemmeno a muovere le gambe, non sono riuscita ad allattarlo per tutto il tempo», ha raccontato la giovane mamma ad un operatore di MSF.

«Accanto a me, mio marito Bakari, di 28 anni, che teneva in braccio il nostro secondo figlio Imael di tre anni. Piangevo durante la traversata, ero terrorizzata che da un momento all’altro le assi del nostro gommone potessero spaccarsi e il tubo di gomma esplodere. Il fondo è fissato con dei lunghi chiodi, rivolti verso l’alto, un vero tappeto che impedisce di stendersi. Cosa ci sarebbe successo?».

«La traversata del Mediterraneo è terrificante», racconta Kim Klausen, Il coordinatore delle operazioni di Medici Senza Frontiere a bordo. «Vedere le persone ammassate su gommoni, sapere che sono partiti su queste imbarcazioni insicure, a rischio di naufragi e soffocamento. Il primo gommone che abbiamo recuperato aveva già iniziato a sgonfiarsi durante la traversata. Se fossimo arrivati qualche minuto più tardi sarebbero tutti morti annegati».

«La mancanza di misure concrete per raggiungere l’Europa in modo sicuro obbliga queste persone a intraprendere viaggi lunghi e rischiosissimi. La maggior parte delle persone in fuga dalla Libia via mare ci riferisce di violenze: pestaggi, omicidi, violenze sessuali, espulsioni di gruppi vulnerabili nel deserto e detenzione prolungata. Non gli resta altra scelta che di intraprendere questo viaggio, unica via di fuga da questo orrore. Ognuno di loro ha una storia da raccontare sul perché si é costretti a rischiare la vita per raggiungere l'Europa. Non lasciamoli morire in mare».

E per un Joseph, un altro rinasce. "L'altro" ha 38 anni, è nigeriano, anche lui è stato soccorse durante le ultime operazioni della Bourbon Argos. Ecco la sua storia terribile:

«Ho vissuto in Libia due anni. Sono rimasto a Sabah un anno e cinque mesi, dove lavoravo come muratore. A Sabah sono stato sequestrato, mi hanno portato in una casa dove sono rimasto per un mese con altre persone. Ci hanno torturato e costretto a chiamare i nostri parenti. Ti danno un telefono per chiamare la tua famiglia e chiedere un riscatto, prendono un filo di nylon gli danno fuoco e te lo schiacciano sulla schiena, vogliono far sentire ai tuoi famigliari le urla. Ci picchiavano ogni giorno. Se hai duemila dinar (1500 dollari), allora ti lasciano andare»

«Se non li hai devi restare. Mia moglie mi ha inviato i soldi che avevo messo da parte durante gli ultimi anni. Mi hanno liberato. Sono arrivato a Gatron, in Libia, dove ho iniziato a cercare un lavoro perché ad un certo punto volevo tornare in Nigeria, avevo capito che in Libia non avrei migliorato la mia situazione. Anche a Gatron la stessa situazione. Ero deciso a ritornare in Nigeria, volevo ritornare per il compleanno di mia figlia, avrebbe compiuto 5 anni il 28 aprile e non la vedevo da 2 anni. Ho chiesto al mio padrone di pagarmi le ore che avevo lavorato. Ha rifiutato».

«Gli ho chiesto di darmi almeno la metà per permettermi di tornare in Nigeria ha rifiutato. Ho iniziato la sciopero della fame. Esattamente 3 mesi fa mi ha sparato. Il 13 aprile, una pallottola è entrata nella mi schiena ed è ancora bloccata dentro il mio corpo. Ero in un bagno di sangue. Gli altri ragazzi che vivevano in questa casa mi hanno aiutato a prendere un taxi e sono stato portato nella casa di una donna ghanese che lavorava come infermiera. È stata lei che mi ha ricucito e curato. La prima settimana non riuscivo a muovervi, avevo problemi anche a respirare. Ora quando mi sdraio ho ancora dolore».

Foto di Sara Creta di MSF


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