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Eraldo Affinati: «Un elogio del ripetente»

Dialogo con Eraldo Affinati, scrittore e insegnante, su alterità, educazione ed incontro, nel giorno in cui la sua scuola, Penny Wirton apre i battenti. «Cercare il volto è la vera responsabilità a cui siamo chiamati. La responsabilità del prendersi in carico lo sguardo altrui». Affinati ha collaborato al bookazine che Vita ha dedicato alle "Periferie al centro"

di Marco Dotti

C’è un’opera umana da compiere, scriveva Teilhard de Chardin. Ed è con questa citazione che si apriva La città dei ragazzi (Mondadori, 2008), lungo viaggio condotto da Eraldo Affinati alle radici di un’infanzia strappata alle sue origini.

Un tuo libro del 2013 ha un titolo che potrebbe apparire provocatorio, Elogio del ripetente (Mondadori, 2013). Perché questo messaggio in controtendenza rispetto alla linea generale che vuole individui adatti o perfettamente adattabili a prestazioni medie e standardizzate che spesso scambiamo per "eccellenza"?
Questa riflessione sul “ripetente” nasce dalla mia esperienza biografica. Io insegno a ragazzi ritenuti "difficili" che arrivano all'istituto professionale come se fosse l'ultima spiaggia. Questi miei studenti spesso sono già stati bocciati all'istituto tecnico o al liceo. Sono, in altri termini, ragazzi che "difficili". Eppure, proprio loro ti fanno capire quanto sia profonda e diffusa una crisi etica generale, di cui la scuola raccoglie cocci e conseguenze. Il “ripetente” diventa, così, un frammento che la società vorrebbe allontanare da sé, ma che il realtà illumina e spiega molte cose di quella medesima società. I ragazzi “difficili”, i “ripetenti” sono quasi dei "frantumi" di questo Paese. Frantumi che cadono in basso e che a noi tocca raccogliere.

Sono anche vittime di un crescente divario di possibilità. Spesso accettiamo senza troppo criticarla l’idea che si parta tutti dallo stesso punto, che in una società democratica tutti abbiano accesso agli stessi strumenti…
Non tutti partono dalla stessa posizione, eppure tutti fingiamo che si parta da una linea comune. C'è chi nasce baciato dalla sorte e chi no, chi durante il suo percorso cade, inciampa, si rialza e chi invece prosegue senza intoppi. Ma dobbiamo uscire da questa finzione. L’Elogio del ripetente è un libro di campo sulla scuola italiana ma direi anche sulla società italiana e attraverso l'incontro con il ripetente ho cercato di capire alcuni snodi etici contemporanei. Snodi che riguardano noi, le nostre vite, qui e ora.

Come è possibile stabilire un contatto, una comunicazione che rompa una barriera di indifferenza che sembra fin troppo spessa?
Per quanto riguarda il lavoro con i ragazzi ti devi mettere in gioco. Consideriamo che spesso questi ragazzi non hanno mai incontrato qualcuno nella loro vita che si mettesse in gioco per loro. Un adulto, intendo, che cercasse di cogliere le ragioni profonde della loro intemperanza, della loro rabbia e della loro indisciplina. Se questo riesce ottieni grande soddisfazione. Ci sono anche le sconfitte e le difficoltà, ma questa è la bellezza dell’insegnamento di frontiera. L’educatore è uno che si ferisce. D’altronde, se ti metti in gioco e ti coinvolgi non puoi che ferirti.

È un ruolo doppio e delicato, quasi da amico e da maestro se non ho capito male…
Esattamente. Fai l’amico quando ti metti in gioco e intercetti il loro livello. Ma fai il maestro quando cerchi di incarnare il limite che loro non devono superare. Se tu fai tutto questo rischi molto, perché chiami in gioco anche i tuoi problemi. Devi sempre essere lucido e equilibrato. Il momento educativo è un momento complesso che chiama in gioco anche la “gioventù dell’educatore”.

Per me la scrittura serve a dar senso all’esperienza. Questo è lo statuto della letteratura. Ma lo constato anche nella scuola, quando ho a che fare con i ragazzi che, quando scrivono, se riescono a formalizzare l’esperienza, capiscono quello che hanno fatto. Lo dico soprattutto a proposito dei ragazzi stranieri, ai quali insegno lingua italiana.

Che cosa intendi dire?
Devi essere credibile e saldo. Non devi essere un eterno giovane. Ma questo richiede un duro lavoro che devi fare anche dentro te stesso.

Dobbiamo quindi guardarci dal rischio della seduzione…
Questo è il punto vero. Se punti tutto sulla seduzione puoi ammaliare l’adolescente, ma poi quello stesso adolescente ti abbandona. Ti abbandona perché è stato spesso sedotto dai suoi genitori e dalla società. La scuola in fondo è rimasta l’unico luogo in cui questi ragazzi dovrebbero essere concentrati, rigorosi, attenti. La società, là fuori, li spinge invece altrove: verso i miti di carta del successo, della bellezza, della ricchezza. Ecco perché l’insegnante si trova spesso solo. C’è un senso di solitudine lancinante in chi insegna. Però proprio adesso quella è la frontiera che non va abbandonata. Se lasciamo sguarnita anche questa frontiera gettiamo nel vuoto una generazione.

Questo stare tra le due linee, nella tua narrativa, trova spesso la forma del viaggio… Stare sul campo è muoversi tra queste due linee cercando di raggiungere una postura etica…
Quando scrivo parto sempre da un’esperienza concreta. Non riuscirei mai a scrivere inventando una storia. Naturalmente, questa esperienza trova il suo senso nella scrittura. L’ultima stazione di questi miei viaggi psico-fisici è sempre la scrittura: lì capisco se l’esperienza ha avuto un senso oppure no. In questa chiave, anche il mio ultimo libro è assolutamente in linea con Campo del sangue (1997) o Un teologo contro Hitler (2002) o Pellegrin d’amore (2010). Per me la scrittura serve a dar senso all’esperienza. Questo è lo statuto della letteratura. Ma lo constato anche nella scuola, quando ho a che fare con i ragazzi che, quando scrivono, se riescono a formalizzare l’esperienza, capiscono quello che hanno fatto. Lo dico soprattutto a proposito dei ragazzi stranieri, ai quali insegno lingua italiana.

Nel finale dell’Elogio del ripetente parli del sogno di un’altra scuola…
È il sogno che coltivo nel concreto, con la Penny Wirton. Una scuola che ho creato con mia moglie, Anna Luce Lenzi, composta da insegnanti volontari disposti a mettersi in gioco insegnando la nostra lingua agli studenti stranieri. Studenti che spesso sono orfani, che arrivano come profughi e non conoscono una sola parola di italiano… Per loro imparare l’italiano significa diventare cittadini di questo Paese.

Tu dunque insegni all’istituto professionale e alla Penny Wirton, la scuola che hai creato 4 anni fa e che si sta diffondendo, come modello generativo, in tutta Italia. Ci spieghi un po’? Da che cosa viene il nome, prima di tutto?
Penny Wirton è il protagonista di un racconto di Silvio D’Arzo (Penny Wirton e sua madre). La scuola è strutturata secondo un percorso di insegnamento che non avviene secondo la classica divisione “gruppi-classe”, ma a tu per tu. Per ogni docente ci sono al massimo due o tre allievi. Nel ruolo di docenti, ho coinvolto anche “ripetenti” e giovani di seconda generazione. Ecco allora che coloro che si trovano in difficoltà nella prima scuola, l’istituto professionale, trovano l’opportunità di mettersi alla prova assumendo una responsabilità inedita: quella dell’insegnante. Gli studenti della Penny Wirton sembrano spugne, tu versi acqua e loro assorbono tutto: eccolo il sogno di un’altra scuola. Fuori dalla finzione pedagogica: far finta di insegnare, far finta di ascoltare come spesso accade… Lì non c’è più finzione pedagogica, perché questi ragazzi vengono da te con una richiesta precisa: “insegnami a dire forchetta”, “insegnami a dire piatto”, “come si fa a trovare un lavoro”, “pane e acqua, vino”… Lì hai lo studente modello, eccolo dunque il sogno concreto di un’altra scuola: lo studente che ti sollecita. E’ possibile che lo studente venga e chieda.

Siamo abituati a numeri, standard, test a risposte multiple e – cosa veramente penosa, perché presumono la malafede del ragazzo – a trabocchetto… Ma qui è come si riapparisse il volto, il nome… Se nel punto più critico di un’esperienza, questa esperienza ci sottraesse all’anonimato. È un rapporto esclusivo con singolo, non falsamente inclusivo…
Cercare il volto, cercare la persona è fondamentale. Se c’è motivazione, per esempio, anche il ripetente escluso dalla scuola tradizionale può attivarsi e diventare docente, può vivere un’esperienza del dare e del ricevere. Cercare il volto è la vera responsabilità a cui siamo chiamati. La responsabilità del prendersi in carico lo sguardo altrui.

Lavoravi già su una frontiera e ti sei andato a cercare guai. Te la sarai sentita rinfacciare mille volte questa critica…
Io insegno ancora oggi alla Città dei Ragazzi, in una succursale di un Ipsia statale (il “Carlo Cattaneo”). Io sono insegnante di Stato e, avendo il mio istituto una succursale dentro la Città dei Ragazzi, ho chiesto di andare lì. A un certo punto ho però colto la necessità di insegnare la lingua italiana ai ragazzi stranieri che, quando arrivano in Italia, non possono essere immediatamente iscritti a scuola. Devi, in qualche modo, intervenire con una sorta di “pronto soccorso linguistico”. Parlandone nelle scuole o nel corso delle presentazione dei miei libri ho colto molto entusiasmo. Io e mia moglie abbiamo così pensato di cercare un luogo per dare spazio a questa bella energia e abbiamo trovato l’ospitalità dei gesuiti di San Saba, sull’Aventino. Loro non ci hanno chiesto nulla: né affitto, né altro. Abbiamo iniziato in 6-7 persone e venivano da noi i ragazzi dei centri della Caritas: minorenni senza alcun certificato. Ora siamo in centinaia di persone tra insegnanti e allievi. Io e mia moglie abbiamo anche scritto un manuale tratto da questa esperienza, è Italiani anche noi. Oramai ci sono scuole che si ispirano al nostro modello un po’ ovunque, dal Piemonte alla Calabria, regione molto attiva e vitale al contrario di quanto molti potrebbero pensare. È un messaggio positivo, un modello che fa presa. Quando vado nelle scuole a parlarne incontro insegnanti coraggiosi che vogliono fare qualcosa di simile, ma si sentono soli. Non siamo soli, non siamo mai soli. Dobbiamo provocare un contagio, dando luce a un’Italia più bella e più vera di quella che vediamo tutti i giorni illuminata dai riflettori dei media. È giusto che venga invece alla ribalta alla tensione etica che attraversa quest’altra Italia., Un’Italia che non soccombe alla brutalità e alla volgarità del nostro tempo.


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