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Wole Soyinka: «La nostra meta è l’uomo, non il potere»

«Quando il potere è posto al servizio di una reazione feroce, bisogna creare un linguaggio che faccia del suo meglio per appropriarsi di questa enorme corruzione e rinfacciargliene gli eccessi». Lo spiega il Premio Nobel per la Letteratura del 1986, Wole Soyinka di cui Jaca book riporta in libreria un libro attualissimo e fondamentale: "L'uomo è morto"

di Marco Dotti

I dittatori di ogni latitudine e grado avevano e hanno due ordini di strumenti per ancorarsi al potere in un contesto critico. Il primo è alterare i dati di realtà. Il secondo, manipolare la percezione di quei dati di realtà. Di questi due casi una storia esemplare ci viene dalla vicenda di Wole Soyinka.

Limitiamoci per ora al secondo – la manipolazione degli effetti di realtà, ovvero la percezione. È lui stesso a raccontarlo in Ibadan: The Penkelemes Years: A Memoir: 1946-65 (1994): nel 1965 è arrestato con l’accusa di avere costretto, minacciandoli con una pistola, i tecnici di una stazione radio governativa a trasmettere un nastro audio con i veri risultati delle recenti elezioni locali. I militari al governo, non potendo alterare i dati, avevano pensato bene di diffondere false informazioni. L’effetto della controinformazione – un po’ spiccia ma necessaria – di quello che era un allora giovane ma già affermato autore teatrale che vent’anni dopo, nel 1986, primo africano, vincerà il Premio Nobel per la Letteratura fu dirompente e fu la ragione del suo primo arresto.

Ne seguirono altri, di cui abbiamo traccia in un altro memoir, L’uomo è morto da poco ristampato, nella traduzione di Carla Muschio, con una prefazione di Oreste del Buono e uno scritto di Luigi Sampietro, nella collana Calabuig di Jaca Book.

Quando, nel 1986 vinse il meritato Nobel, Soyinka commentò: «Spero me l’abbiano dato per i mie romanzi, non per la mia attività politica». Ovviamente – e lui lo sapeva – non era così. No c’è Nobel che non sia, per sua natura, “politico”. Ma al di là delle circostanze, quel Nobel finì a un autore di altissimo profilo e con un’opera di primo livello. Come spesso accade, la verità affiora quando muoiono le intenzioni. E così, a distanza di 33 anni – The man died uscì per la prima volta nel 1972, Jaca book lo pubblicò nel 1983, quando da molti anni Soyinka era un autore del suo catalogo – si rivela forse con ancor più forza come il testo di un autore – come ha osservato Luigi Santambrogio – pienamente morale. Il libro si presenta come un flusso di coscienza, con frammenti e riflessioni composte e ricomposte da cui riaffiorano, dopo due anni di prigione vissuti come viaggio in interiore homine, le preoccupazioni principali dell’Autore: il potere, le relazioni di scambio fra lingua e potere e, come si capisce dal titolo, l’uomo.
Quella condizione primaria e ineliminabile, costitutiva della letteratura per la quale non è, né può, essere indifferente che l’uomo ci sia. La morte dell’uomo è la morte di ciò che di umano, anche in ogni condizione estrema, resta di lui, in lui. Scrive Soyinka, in un testo scritto 10 anni dopo L'uomo è morto e posto in apertura del libro: «Quando il potere è posto al servizio di una reazione feroce, bisogna creare un linguaggio che faccia del suo meglio per appropriarsi di questa enorme corruzione e rinfacciargliene gli eccessi. Criticare questo linguaggio è semplicemente da schizzinosi: ci si aspetta che il linguaggio porga l’altra guancia invece di mostrare la lingua; offra una stretta di mano di riconciliazione, invece di alzare un dito in un osceno gesto di sfida. Tale critica dovrebbe cominciare con l’attaccare il ribollente letame di maltrattamenti disumani da cui un tale linguaggio è nato, e allora le sue conclusioni sarebbero degne di nota. Se non lo fa, non ci resta altro, an-cora una volta, che il volto dell’intellettualismo collaboratore con il potere: cioè, il prendere il potere e i suoi eccessi come la condizione naturale, in rapporto alla quale si deve rendere conto anche del linguaggio».

Quando il potere è posto al servizio di una reazione feroce, bisogna creare un linguaggio che faccia del suo meglio per appropriarsi di questa enorme corruzione e rinfacciargliene gli eccessi. Criticare questo linguaggio è semplicemente da schizzinosi: ci si aspetta che il linguaggio porga l’altra guancia invece di mostrare la lingua; offra una stretta di mano di riconciliazione, invece di alzare un dito in un osceno gesto di sfida.

Wole Soyinka

Davanti alla fredda realtà del potere inteso come un reticolato diffuso, un dispositivo ramificato nel linguaggio sta proprio al linguaggio e alla critica il compito di non recedere. Ecco perché, secondo l'Autore, in ogni condizione in cui l'uomo sia posto in condizioni di potere «il linguaggio deve comunicare l’illegittimità di questo con la lingua vigorosa, intransigente del rifiuto, sforzandosi sempre di renderlo ridicolo e spregevole, sgonfiando le sue pretese nel profondo. Un tale linguaggio non ha la pretesa di smantellare quella struttura di potere, cosa che in tutti i casi deve essere uno sforzo collettivo».

dal momento in cui il potere viene giudicato colpevole in un modo qualsiasi, ogni unità familiare dovrebbe, invece di, o dopo le regolamentari preghiere mattutine, ritualmente scagliare gli avanzi della colazione contro una fotografia appesa al muro del simbolo del potere prima di usci- re a guadagnarsi da vivere in un sistema insopportabile. Ogni mattina religiosamente.

Wole Soyinka
https://twitter.com/blicqer/status/790964984893222913

Il potere va, per Soyinka, giudicato. Ma dal giudizio nessuno è immune. «Ritengo che dal momento in cui il potere viene giudicato colpevole in un modo qualsiasi, ogni unità familiare dovrebbe, invece di, o dopo le regolamentari preghiere mattutine, ritualmente scagliare gli avanzi della colazione contro una fo- tografia appesa al muro del simbolo del potere prima di uscire a guadagnarsi da vivere in un sistema insopportabile. Ogni mattina religiosamente. (…) Per ricordare a se stessi che il semplice atto di uscire per guadagnarsi da vivere sotto il regime, o per studiare sotto il regime, è in se stesso un atto di collaborazione, una specie di legittimazione la cui unica scusante è la mancanza di alternative immediate».

Nell’Uomo è morto – il titolo del libro prende il primo capitolo e molto spiega e molto dice anche sul senso del titolo e, soprattutto, sulla natura di questo testo, da leggere, appunto in quanto testo sull’umano e non come mera “testimonianza d’epoca” o archeologica – affiora anche quella concezione del potere, non ingenua, non manichea, che ha fatto di Soyinka un autore situato – cultura yoruba, una particolare teoria sulla cultura aficana – ma universale, come ogni autore che, nella maestria delle forme, non reca traccia di una reale e non estetizzante esperienza del dolore

Il libro

Wole Soyinka, L'uomo è morto, traduzione di Carla Muschio, Jaca Book, Milano 2016, euro 13,53, pagine 328
«L’arresto di Wole Soyinka nel 1967 è determinato dalla sua denuncia della guerra sui giornali nigeriani, dal suo tentativo di reclutare gli intellettuali della nazione fuori e dentro il paese in un gruppo di pressione mirante a bandire la fornitura delle armi in qualsiasi parte della Nigeria (…). Wole Soyinka racconta, come hanno già raccontato tanti altri martiri della resistenza contro l’ingiustizia al potere il suo arresto, i suoi primi interrogatori, la sua carriera di detenuto ingiustamente. È un uomo che compie un’esperienza ingrata, ma che cerca di trarne profitto e di far sì che ne possano trarre profitto altri (…). Secco, duro, aspro, meticoloso, accanito, spietato, Wole Soyinka è comunque un grande scrittore. E così a poco a poco in queste pagine scritte, riprese, continuate a scrivere per anni a commento del passato, dell’esperienza e delle incertezze del futuro, la magia della sua scrittura riprende possesso come una vegetazione tropicale dello scheletro della storia, dell’esatezza del commento, del furore del libello»
(dalla prefazione di Oreste del Buono)

In copertina Wole Soyinka (immagine di PIUS UTOMI EKPEI/AFP/Getty Images)


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