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Cooperazione & Relazioni internazionali

I Nobel riuniti a Bogotá per appoggiare gli accordi di pace

Il 16 ° Summit dei premi Nobel per la pace, che ha riunito 21 vincitori, si è tenuto per la prima volta in una capitale latinoamericana. Al centro del dibattito la pace, la riconciliazione e lo sviluppo. A seguire i lavori per Vita.it Cristiano Morsolin, esperto di diritti umani e unico italiano presente a Bogotà

di Redazione

A Bogotá si è recentemente concluso il “Vertice dei premi Nobel per la Pace”, con un omaggio alle vittime del conflitto colombiano. Nell’occasione è giunto ai convegnisti un messaggio di Papa Francesco, il quale «esorta a promuovere la comprensione e il dialogo tra i popoli» e in particolare «confida che gli sforzi della Colombia per gettare ponti di pace e riconciliazione possano ispirare tutte le comunità a superare la divisione» e che le vittime della violenza «siano capaci di resistere alla tentazione della vendetta e si convertano in operatori di pace».

Rompere muri
Il Presidente della Colombia, Juan Manuel Santos, ha aperto Giovedi scorso il 16 ° Summit dei premi Nobel per la pace, che ha riunito 21 vincitori che hanno discusso di pace, riconciliazione e sviluppo, per la prima volta in una capitale latinoamericana (nel dicembre 2014 approdato a Roma).

Il neo premio Nobel Santos (2016) ha sottolineato: «La discriminazione, la crisi dei rifugiati e l'assurdo aumento di divieti d'ingresso ai migranti, insieme a discorsi di odio e di esclusione che conquistano i cuori più deboli e intimoriti. Cosa possiamo dire all'umanità di fronte a tutto questo?».

«È un muro che non solo divide le persone, ma anche le coscienze», ha affermato Oscar Arias, ex presidente della Costa Rica, Nobel '87.

La pacifista guatemalteca Rigoberta Menchu, premiata nel 1992, ha aggiunto: "Il giorno che mi rifiuteranno il visto per gli Stati Uniti dovrete venirmi a trovare in Guatemala perché in America non andrò più".

Il coraggio di Shirin Ebadi, Iran
«Mi hanno preso tutto, ma mi è rimasta la voce» ha detto il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi dopo che il governo iraniano le ha sottratto tutto quello che possedeva come intimidazione in seguito alle sue prese di posizione contro il regime. Anche la medaglia del Nobel che le avevano consegnato a Stoccolma ora è in qualche archivio di stato, o a casa di uno zelante uomo delle forze dell’ordine che forse l’ha già rivenduta sul mercato nero. La voce però, quella rimane.

“La voce, la scrittura è un’arma che non può essere sottratta, e per combattere un governo è l’arma più pericolosa perché può colpire più nel profondo di un kalashnikov o di una granata. La voce non ferisce il corpo, ma è diretta all’anima e può far germogliare sulle rocce dell’indifferenza il fiore della consapevolezza” afferma Shirin Ebadi nel salone di Corferia che ospita piú di mille ascoltatori.

Il Premio Nobel Ebadi (Iran) ha lanciato un forte messaggio per la pacificazione in Colombia: «in un processo di pace é necessario che la societá accetti uomini, donne e bambini della guerriglia che ritornano alla vita civile. E’ importante che tutte le vittime del conflitto ricevano la riparazione per i traumi subiti duante la guerra».

Shirin Ebadi nel 2004 aveva avuto il coraggio di presentarsi direttamente a Bogotá al Palazzo Presidenziale di Nariño per esigere al Presidente della Repubblica Alvaro Uribe (2002-2010) di non attaccare i difensori dei diritti umani, facendo scoppiare uno scandalo internazionale.

Shirin Ebadi era rappresentante della Federazione internazionale Diritti Umani, una delle reti mondiali di maggior peso internazionale che spostó il suo congresso mondiale da Bogotá, dove era precedentemente programmata, a Quito (Ecuador), per “mancanza di garanzie date da Uribe”.

In una nota difusa il 2 ottobre 2003 dalla sede di Parigi, l’Osservatorio per la Protezione dei Difensori dei diritti umani (un programma congiunto della “Federazione internazionale Diritti Umani” FIDH www.fidh.org e dall’Organizzazione Mondiale contro la Tortura OMCT www.omct.org ) esprime una profunda preoccupazione rispetto al comunicato dei paramilitari delle Unitá di auto-difesa della Colombia AUC che appoggia le dichiarazioni del Presidente Uribe contro le ONG che si occupano di diritti umani.

L’Osservatorio – come varie organizzazióni internazionali (tra cui Amnesty International di Londra e WOLA – Washington Office for Latin America www.wola.org ), hanno diffuso energiche proteste nei confronti delle parole del Presidente Uribe “con la chiara intenzione di discreditare il lavoro dei difensori dei diritti umani e costituiscono autentiche minacce per la loro sicurezza”.

Inoltre l’Osservatorio esprime preoccupazione anche per le parole della Ministra della Difesa durante il suo recente viaggio a Washigton, dichiarando che “lo Stato prevede di investigare il profilo e le attivitá di migliaia di organizzazióni di diritti umani che operano in Colombia”. “Nel contesto delle dichiarazioni anteriori e della situazione di profonda insicurezza che si vive in Colombia, queste dichiarazioni sono molto inquietanti in direzione di una criminalizzazione di molti settori sociali in Colombia” – enfatizza l’Osservatorio per la Protezione dei Difensori dei diritti umani -concludendo la nota con una “sollecitazione rivolta al Presidente Uribe per rattificare públicamente il suo discorso che rappresenta una vera minaccia allo stato di diritto e che si distacchi dall’appoggio che riceve dai paramilitari”.

Poi la magistratura colombiana nel 2008 ha scoperto che il Presidente Uribe aveva utilizzato i servizi segreti del DAS per spiare e seguire tutti i movimenti del Premio Nobel Ebadi in Colombia.

Il fantasma della storia che si ripete
In Colombia, dal 1° dicembre 2016, giorno in cui il Parlamento ha sancito gli «Accordi di pace» tra il governo del presidente Manuel Santos e l’ex guerriglia delle Farc, sino a oggi, sono stati assassinati 17 leader sociali, politici, sindacali e difensori dei diritti umani, tutte vittime della violenza della criminalità organizzata e dalle rappresaglie paramilitari. La conferma di tale tragica notizia che adombra il difficile processo di pace in corso è stata confermata dalle autorità tramite l’unità statale per le vittime e da Peter Maurer, presidente del comitato internazionale della Croce rossa. La preoccupazione nel Paese è in crescita anche perché la stampa locale sottolinea che a queste 17 vittime si devono sommare almeno altri 100/120 omicidi quasi identici nel corso nel 2016, realtà denunciata dall’Alto Commissario Onu per i Diritti umani.

L’aumento di questi omicidi è stata una delle questione discusse nel «XVI Vertice dei Premi Nobel» e in particolare da due di loro, Jody Williams (Usa) e Leymah Gbowee (Liberia), che si sono espressi con duri richiami al governo: «Non è possibile costruire la pace vera se nel frattempo si permette di uccidere esponenti del popolo».

A molti, fuori e dentro della Colombia, in questi giorni sono venuti in mente i 3mila omicidi di membri della Unión Patriótica (Up) dopo il fallito processo di pace ai tempi del presidente Belisario Betancur. L’ondata di crimini si prolungò dal 1984 al 2002, tra le vittime si contarono due politici che preparavano le loro candidature alla presidenza. Nel 2013 il Consiglio di Stato della Colombia ha sentenziato che quello che accadde in quegli anni fu un vero e proprio «genocidio politico».

Quegli assassinii non sono affatto “casi isolati”.Non passa un giorno, in cui non vengano denunciate, da moltissimi testimoni colombiani e non, incursioni e minacce armate, prepotenze, abusi, intimidazioni, dimostrazioni spavalde di potere e impunità assoluti. Varie organizzazioni sociali lo hanno denunciato anche al 16° Word Summit of Nobel Peace Laureates, riconosciuto a livello internazionale, come il più importante evento annuale nel campo della costruzione della pace (svoltosi a Bogotá, 2-5 febbraio 2017); addirittura Alan Jara, direttore della governativa Unidad de Victimas parla di “massacro continuo” all’Espectador.

Conclusione
«Con tutto il cuore auguro di continuare questo processo di pace in Colombia, e grazie a tutte le parti coinvolte e dei paesi garanti, penso che abbiamo la speranza che arriverá a buon fine con l’implementazione della giustizia», ha detto la guatemalteca Rigoberta Menchu, vincitore del Premio Nobel per la Pace 1992.

«Con tutto il cuore desidero che i giovani assumino l’educazione alla pace, parte fondamentale di armonia e riconciliazione per superare 52 anni di conflitto armato», ha concluso la leader dei popoli indigeni del Guatemala.

«Ecco il significato della diplomazia internazionale promossa da una ventina di premi nobel di Pace, per appoggiare la pace con giustizia sociale in Colombia, sulla scia della politica della nonviolenza di papa Francesco – di cui ho scritto per VITA il 12 gennaio 2017», commenta Cristiano Morsolin, esperto di diritti umani, unico italiano a partecipar al Summit dei Premi Nobel.

Recentemente il premio Nobel Argentino Adolfo Perez Esquivel aveva sottolineato che non basta una firma formale degli accordi di pace ma si devono tradurre nella vita quotidiana, mai piú con la lotta armata: “In Colombia però non basta firmare un accordo di pace. l Paese ha moltissimi problemi da risolvere, seppure gradualmente. Uno molto grave è la questione degli sfollati interni: ci sono sette milioni di colombiani esuli all’interno del Paese e sei all’esterno. C’è anche il problema dei gruppi paramilitari e quello di molti giovani sequestrati e uccisi facendoli passare per guerriglieri: venivano rastrellati, spesso nelle discoteche, gli si faceva indossare una divisa della guerriglia e poi venivano uccisi per vantare meriti e fare carriera militare. In questo momento in Colombia c’è il forte timore che si possano uccidere i guerriglieri smobiliatati come già accadde quando dopo la firma della pace gruppi paramilitari eliminarono più di quattromila guerriglieri. Questo non si deve ripetere. La sfida principale della Colombia è l’unità politico-sociale della nazione per la vera pace. In questo compito nessuno deve sentirsi escluso, ma la condizione essenziale è che tutti devono essere disarmati, altrimenti è un progetto che non ha futuro”, conclude Adolfo Perez Esquivel.


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