Cooperazione & Relazioni internazionali

Pietro Bartolo: «La mia vita su e giù per l’Italia a parlare di migranti»

Un intenso incontro del medico di Lampedusa protagonista di “Fuocoammare” con gli studenti di tre scuole di Piacenza, organizzato dal CSV Svep. «Per 25 anni sono stato immerso in silenzio nella sofferenza. Dopo il film dedico i fine settimana a raccontarla a tutti»

di Carla Chiappini

«È vero, ho salvato tante vite, a volte già chiuse nei sacchi dove si depongono i morti. Tanti bambini; alcuni li ho anche fatti nascere e allora in quei momenti mi sento bene, mi sento un uomo vero, una persona che dà senso alla propria vita. Certamente non un eroe».

Pietro Bartolo, medico dell’isola di Lampedusa protagonista del docufilm “Fuocoammare” (Orso d’Oro al Festival di Berlino 2016) parla nella biblioteca del Collegio Alberoni di Piacenza. Attorno a lui venti ragazzi delle “redazioni” dei giornalini di tre scuole della città (i licei Colombini e Cassinari e Istituto Romagnosi), che lo intervistano a lungo. «Ogni volta che ti trovi a fare un’ispezione cadaverica, soprattutto su un bambino, – prosegue, – hai la sensazione che stia accadendo qualcosa di disumano, di vergognoso, che accade quasi tutti i giorni e di cui nessuno parla più. E ti senti molto male».

L’incontro, avvenuto pochi giorni fa e organizzato dal CSV di Piacenza SVEP, dall’associazione “La Ricerca Onlus” e dall’Opera Pia Alberoni, non è che uno dei tantissimi a cui il medico si presta per «parlare dei migranti, di queste persone che affrontano immani sofferenze per salvarsi dalle guerre o dalla fame». Si svolge in due parti: prima l’intervista con i ragazzi, poi un dibattito nel salone gremito davanti a un pubblico che lo ascolta ammutolito.

Sono con lui anche Lorenzo Bianchi, giornalista inviato di guerra per il Resto del Carlino, prigioniero – con alcuni colleghi italiani e non – di Saddam Hussein, e Benedetta Cappelli, giovane ostetrica piacentina impegnata con Medici Senza Frontiere in una missione di salvataggio nelle acque di Sicilia. Mentre il giornalista piacentino Giangiacomo Schiavi editorialista del Corriere della Sera, fa da moderatore.

Ma è Bartolo il mattatore della giornata. Le sue parole si scaldano quanto una ragazza gli rivolge la domanda su come media si comportano rispetto una vicenda tanto complessa come la migrazione. «I media, come anche i politici, – risponde Bartòlo, – a volte sembrano impegnati soprattutto a seminare odio e paura. Fanno terrorismo mediatico e per questo dovrebbero essere puniti. Ci sono due mestieri che io stimo più di tutti gli altri: quello degli insegnanti e quello dei giornalisti. I primi perché hanno tra le mani la formazione dei ragazzi e i secondi perché possono dar voce a chi non ce l’ha. Sono stato io stesso per 25 anni immerso nella sofferenza dei migranti in silenzio, senza che nessuno si desse la pena di raccontare alla gente cosa stava succedendo nella nostra isola. Poi due anni fa è arrivato a Lampedusa questo personaggio straordinario, Gianfranco Rosi, che voleva capire e mi faceva domande e poi ha fatto questo docufilm in cui ha raccontato al mondo la straordinaria storia della nostra isola e delle persone che arrivano da un mare dove, purtroppo, tanti di loro hanno trovato la morte».

Un film, “Fuocoammare” che cambiato inevitabilmente anche la vita di questo medico. «È stato un fatto molto importante che ha risvegliato l’attenzione e la sensibilità di tanta gente, – spiega infatti Bartòlo. – E da allora sono due anni che dedico i miei fine settimana a girare su e giù per l’Italia. Perché, vedete, morire di guerra è terribile ma morire di fame è ancora peggio; è un tormento che ti fa soffrire ogni giorno per tanti giorni per cui io non riesco ad accettare la distinzione tra rifugiati e migranti economici. Sono tutte persone disperate che tentano di salvare sé stesse e i loro bambini».



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