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La società ipertecnologica? Non ha bisogno di tecnici, ma di ibridi

Servono manager della complessità, capaci di abitare i confini tra i saperi, traendone opportunità. Intervista a Piero Dominici, docente di Comunicazione pubblica e Attività di Intelligence all’Università degli Studi di Perugia

di Redazione

Il futuro sarà delle “figure ibride”, dei “manager della complessità”, di chi saprà «abitare quelli che oggi consideriamo come limiti e confini tra i saperi». Professore universitario e formatore professionista, Piero Dominici insegna Comunicazione pubblica e Attività di Intelligence presso l’Università degli studi di Perugia. Da vent’anni si occupa di complessità e di teoria dei sistemi, con particolare riferimento alle organizzazioni complesse ed alle tematiche riguardanti l’educazione, l’innovazione, la cittadinanza, la democrazia, l’etica pubblica. È Scientific Director del Complexity Education Project, gestisce un blog su Nòva de Il Sole 24 Ore dal titolo “Fuori dal Prisma”. Ecco i suoi consigli su cosa i giovani dovrebbero pretendere da scuola, università e in generale dalle istituzioni educative e formative. A cominciare da chi studia scienze della comunicazione.


Il World Economic Forum lo dice da tempo, ma ora il concetto è diventato mainstreaming: il 65% dei bambini che sono alla primaria, “da grande” farà un lavoro che oggi non solo non esiste ma che nemmeno sappiamo immaginare. In questo scenario, in cui le competenze e le conoscenze diventano rapidamente obsolete, su cosa devono puntare i giovani per la loro formazione?
La riflessione di fondo è che i giovani dovrebbero prima di tutto incontrare, scoprire e vivere le loro passioni. Non i loro interessi, ma proprio le passioni, ciò che scalda il cuore, ciò che quando lavori anche fino a tardi ti fa vivere bene e quasi non sentire la stanchezza. Occorre avere il coraggio di andare oltre quella visione ingannevole che ci spinge a dover trovare sempre l’utilità in tutto ciò che facciamo, anche in ciò che riguarda la nostra crescita e maturazione intellettuale e personale. Le passioni vanno appunto scoperte, stimolate, suscitate e fatte emergere con un percorso educativo che deve iniziare fin dai primi anni di scuola, che sappia tenere insieme ragione e immaginazione, pensiero ed emozioni, spesso rimosse dai percorsi educativi e formativi. Tutto questo comporta quella che – a mio avviso – è una questione di cruciale importanza, anche se molto sottovalutata: riscoprire il valore dell’autenticità e ritornare ad un’educazione all’autenticità. Possono sembrare dimensioni scollegate con il tema del lavoro, ma è esattamente il contrario.

Perché questo discorso che può apparire a prima vista un po' generico o valoriale è invece decisivo rispetto al tema del lavoro?
Perché siamo persone, ovvero soggetti di relazione, prima che lavoratori, cittadini, consumatori. Alla base di ogni nostro discorso, si trova l’urgenza di recuperare le dimensioni (complesse) della complessità educativa, nella prospettiva sistemica di un’educazione socio-emotiva. Su questo punto ci sarebbe da dire molto, anche sull’assenza di un “vero” orientamento e di politiche di orientamento, in grado di accompagnare i nostri ragazzi nel passaggio dalla Scuola all’Università. In secondo luogo, per dare una traduzione operativa a quanto detto, occorre puntare su percorsi formativi che siano sempre più costruiti e progettati in un’ottica interdisciplinare e multidisciplinare, in grado di lasciarsi alle spalle vecchie logiche di separazione, non ultima quella ben nota fra le cosiddette “due culture”. Quelli che oggi sono considerati confini e limiti – fra i saperi, fra le conoscenze e le competenze, fra la razionalità e la creatività – devono diventare varchi, aperture, percorsi, opportunità. Abbiamo sempre più bisogno di figure ibride, di profili curriculari che sappiano tenere insieme immaginazione e razionalità, creatività e rigore metodologico, l’umano e il tecnologico. È la complessità del mutamento in atto, la sua ambivalenza, velocità e imprevedibilità ad averci mostrato l’inadeguatezza degli attuali processi educativi e formativi, ma anche l’inconsistenza delle spiegazioni riduzionistiche e dei tradizionali modelli interpretativi lineari.

Occorre recuperare l’empatia, il pensiero critico, una visione sistemica dei fenomeni, l’educazione alla comunicazione, l’immaginario

Piero Dominici

Quindi la scuola, l’università, le istituzioni educative e formative come dovrebbero cambiare?
Il discorso sugli interessi, le passioni, ciò che è in grado di emozionare e stimolare la creatività comporta il ripensare a fondo i processi educativi e formativi, nella direzione della riscoperta della costruzione sociale della persona e non solo dell’individuo. Questo avrebbe ricadute importanti sull’esistenza dei giovani, non soltanto in chiave lavorativa e professionale. Al contrario, continuiamo ad alimentare quelle che molti anni fa ho chiamato “false dicotomie”, non ultima quella tra pensiero ed emozione: su queste continuiamo a impostare educazione e formazione, basandole su una certa idea della razionalità e dell’utilità del sapere. Oggi, come mai in passato, occorre recuperare le dimensioni complesse della complessità educativa: l’empatia, il pensiero critico, una visione sistemica dei fenomeni, l’educazione alla comunicazione, oltre a dimensioni che abbiamo volutamente rimosso, come l’immaginario e la creatività. Significa ripensare lo spazio relazionale e comunicativo dentro le istituzioni formative ed educative, rilanciare l’educazione nella prospettiva sistemica di una educazione che non può che essere socio-emotiva. Il “grande equivoco” dell’educazione nella civiltà ipertecnologica è proprio quello di pensare che siano necessarie un’educazione e una formazione squisitamente di natura tecnica e/o tecnologica; proprio il contrario di ciò di cui avremmo e avremo disperatamente bisogno…


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