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Dorfles, dalla psichiatria all’arte

Era laureato in medicina. Praticò anche per qualche anno. Un’esperienza che ha segnato il suo sguardo di critico, attento a tutte le forme espressive, come risposte ad un bisogno non razionalizzato. Il nostro ricordo di Dorfles

di Giuseppe Frangi

Gillo Dorfles, critico d’arte, pittore, filosofo in realtà all’inizio era ben altro. Si era infatti laureato in medicina a Genova ed aveva preso la specializzazione in psichiatria a Pavia. Praticò per un paio d’anni nel dopoguerra all’ospedale Maggiore di Milano, per poi decidere che quella non era la sua strada. Eppure quella prima strada avrebbe lasciato un segno profondo. Sin dall’inizio Dorfles fu molto attento all’espressività delle persone con disturbi psichiatrici. Lui stesso aveva usato la pittura, quando ancora pensava che la psichiatria fosse la sua strada, per esplorare i volti e i misteri dei “matti”. Erano prove senza pretese, ma che oggi diventano dei documenti importanti per capire quella cesura che ad un certo punto segnò la sua vita. Perché non di cesura si trattò ma di un diverso modalità di indagine rispetto alla creatività umana. È a partire da questa sua formazione che Gillo Dorfles approcciò un’estetica in cui tutti aveva un diritto di cittadinanza, e dove quindi le differenze tra bello e brutto sfumavano. Amava ovviamente l’outsider art, quella prodotta dai pazienti con disturbi psichici. Era un assiduo frequentatore del più importante museo europeo dedicato a questa arte, il museo dell’Art Brut di Losanna. Riteneva che tutto ciò che a forza di segni e di colori dava spazio alle spinte dell’inconscio, fosse di grande interesse per una meno banale comprensione dell’uomo. Ormai più che centenario visitò con grande entusiasmo la Biennale di Venezia del 2013 che Massimiliano Gioni aveva voluto dedicare proprio all’esplorazione dell’outsider art del 1900.

Era un approccio con cui gettò un altro sguardo sull’arte del 900, mettendo al centro il ruolo avuto dalla psicoanalisi nella storia di tanti artisti. Spiegava: «Il grande valore attribuito all’inconscio, con tutte le sue necessarie stratificazioni ha permesso a molti artisti di sviscerare i propri ricordi sublimandoli e anche di sottoporsi a una pratica psicoanalitica e di indagare meglio le proprie pulsioni più o meno nascoste». Così le distanze tra mondo della psichiatria e mondo dell’arte si scorciavano e una dimensione finiva nell’altra.

Dorfles era incuriosito da questo bisogno insopprimibile dell’uomo ad esprimersi attraverso la rappresentazione di figure sin dall’inizio della storia umana. «Illustrare le pareti delle caverne», diceva, «era senza dubbio ascrivibile a temi religiosi, ma più di ogni altra cosa rappresentava un ‘azione contro il vuoto, contro l’assenza del segno. È a partire da questo segno, da questa impronta, che l’uomo si sente protetto. Si continua così nella storia dell'umanità, sino ad arrivare ai nostri giorni, dove viviamo "l'orrore del pieno";dunque l'abuso delle immagini e dei suoni, l'abuso di tutto, del traffico».

L’arte per lui era dunque una straordinaria finestra che permette di indagare l’umano.


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