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Cooperazione & Relazioni internazionali

Dal 3 ottobre 2013 si muore in mare ogni giorno in cerca di salvezza

Regina Catrambone, co-fondatrice del Moas, ricorda il momento in cui tutto è iniziato. Con quel naufragio al largo di Lampedusa in cui rimasero uccise 368 persone. Un evento di cinque anni fa che ha dato il via allo sforzo della società civile per salvare vite umane

di Regina Catambrone

Il 3 ottobre 2013 ha profondamente cambiato la vita della mia famiglia da un punto di vista personale oltre che professionale. Da quel giorno, ci siamo impegnati attivamente per diminuire le morti in mare e opporci alla globalizzazione dell’indifferenza che Papa Francesco aveva invitato a contrastare qualche mese prima proprio dall’isola di Lampedusa.

Il naufragio che uccise 368 persone, riversandone i corpi sulla spiaggia immacolata dell’isola siciliana divenuta nel tempo la porta d’Europa, ha segnato l’inizio di una avventura che ci ha permesso di salvare oltre 40.000 bambini, donne e uomini lungo la rotta del Mediterraneo Centrale e dell’Egeo.

Ho raccontato molte volte come è nata MOAS e la sua missione per salvare vite umane in pericolo in mare, restituendo ai salvati un volto e una storia. Proprio quelle storie ci hanno permesso negli anni di rafforzare un legame di empatia necessario per comprendere la migrazione forzata e superare l’attuale narrativa fatta di numeri e statistiche.

Cinque anni dopo, voglio ricordare le persone in un momento in cui la solidarietà è diventata un crimine, il mare è stato svuotato dalle navi umanitarie e la percentuale di morti in proporzione alle partenze è drasticamente aumentata. Voglio ricordare brevemente le loro storie e augurare a ciascuna di loro un futuro di pace.

Sadik aveva 17 anni quando lo abbiamo salvato. Etiope, della minoranza perseguitata degli Oromo, Sadik sognava di giocare a calcio e dopo il salvataggio le ferite delle torture subite erano ancora aperte e chiaramente visibili sulla schiena. Il suo sguardo raccontava tutto l’orrore vissuto nel terribile viaggio che aveva dovuto affrontare.

Yasmine aveva 26 anni quando è stata tratta in salvo insieme alla figlia durante il terzo tentativo di attraversare il mare. All’epoca era incinta e il marito era rimasto bloccato in Libia perché non poteva permettersi il viaggio. Murielle, invece, aveva solo 13 anni quando è stata rapita mentre tentava di entrare il Libia. Dopo tre anni di schiavitù sessuale, era salita su un barcone sperando di toccare terra.

Il piccolo Salomon aveva appena un anno quando lo abbiamo salvato durante l’indimenticabile weekend di Pasqua 2017. Viaggiava insieme alla madre e fuggiva dalla guerra in Siria sperando di raggiungere il padre in Svezia. A bordo con noi, per quella missione c’era Padre Regami dell’Arcidiocesi di Colonia che ci ha aiutati a superare il dolore di dover recuperare sette cadaveri, fra cui due donne e un bambino di cui non sapremo mai nulla.

Rital aveva solo due mesi quando è arrivata a bordo della Phoenix insieme al papà Mahmood e alla mamma Doaa, due siriani di 27 e 26 anni che avevano provato quattro volte la traversata dopo essere rimasti per un po’ in Libia. Qui era nata la loro prima figlia e da quel momento hanno pensato solo a metterla al sicuro. Non avendo altra scelta, hanno dovuto rischiare la vita in mano ai trafficanti. Stessa sorte è toccata a Nadine, 22 anni, che ha dato alla luce la sua piccola Hope da sola, in una prigione libica senza alcuna assistenza sanitaria. Madre e figlia sono state visitate per la prima volta dal nostro team di post-soccorso. Durante lo stesso salvataggio, abbiamo recuperato il corpo senza vita di un giovane ragazzo ucciso probabilmente per un errore di comunicazione prima di lasciare la Libia.

Queste sono solo alcune delle storie, dei volti, delle mani, delle cicatrici delle torture che continuo a ricordare dopo anni. Ogni volta che sento la notizia di un naufragio, mi tornano in mente tutte le persone che siamo miracolosamente riusciti a salvare. Penso alle migliaia di bambini, donne e uomini che sono stati a bordo con noi e mi tornano in mente le storie che mi hanno raccontato, le città che hanno dovuto abbandonare, i cibi che cucinavano nei giorni di festa e i sogni che sono stati interrotti dalla violenza scoppiata nei paesi di provenienza e transito.

Queste persone non possono essere considerate numeri, la loro vita non può essere sottovalutata, né la loro morte ignorata. Ogni morte causata da una mancanza di umanità e di alternative sicure e legali è una morte di troppo che ci riguarda tutti.

Immaginiamo per un momento di essere noi in fuga stipati con i nostri cari su un barcone in mezzo alla vastità di questo mare. Solo allora capiremo davvero cosa voglia dire rischiare tutto pur di salvarsi la vita. Non limitiamoci a celebrare il 3 ottobre un singolo giorno, ma ricordiamoci che ogni giorno si perde la vita in mare o sulla terra in cerca di salvezza.


La foto di copertina è di Francesco Malavolta


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