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Quel relitto al cuore della Biennale

Per idea di un artista svizzero il barcone affondato con oltre 700 migranti nel 2015 è diventato un’installazione a Venezia. Un segno emozionante e potente. Al quale però manca qualcosa...

di Giuseppe Frangi

È sua l’idea di portare a Venezia il relitto del barcone che il 18 aprile 2015 affondando fece oltre 700 vittime. Christoph Büchel è un artista svizzero che ora vive in Islanda. Qualche mese fa aveva proposto al direttore della Biennale che inaugura sabato, Ralph Rugoff, di avere in Laguna quel barcone arrugginito. È stato sempre Büchel a dargli un nome e quindi a dare un titolo a questa che sarà una delle “opere” più viste e più cariche di significato della nuova Biennale: “Barca Nostra”. Büchel è un artista perfettamente inserito nel sistema artistico, fatto di valutazioni stellari, di gallerie potenti e di collezionisti dal potere d’acquisto quasi illimitato. Fa parte delle scuderie di una delle gallerie più influenti a livello di mercato, la Hauser & Wirth: nel 2011 aveva trasformata la sede espositiva londinese in un centro ricreativo funzionante, che si innestava nella vita di una comunità sotto le mentite spoglie di un servizio pubblico.

Ora Büchel ha voluto operare un altro ribaltamento, visto che la Laguna è abitualmente solcata da navi da crociera che si affacciano sul bacino di San Marco: il relitto rappresenta esattamente il contraltare di quelle immagini di prepotente opulenza. È sconcertante nella sua povertà e anche nelle dimensioni tutto sommate ridotte, che rendono difficile immaginare come a bordo potessero esserci oltre 700 migranti (infatti dopo il recupero del relitto, sono stati trovati corpi distesi nella stiva dove l’altezza non superava i 40 cm.).

Il relitto verrà sistemato nelle acque dell’Arsenale, visibile a tutti coloro che in questi mesi affolleranno la Biennale veneziana. Diventerà probabilmente il simbolo un po’ indigesto di questa edizione, il cui titolo, al cospetto del barcone trafitto dalla ruggine, suona un po’ fuori luogo: “May You Live In Interesting Times”, “Che tu viva tempi interessanti”. Forse è quello che sognavano i migranti che il Mediterraneo ha inghiottito quel 18 aprile. O forse a loro bastava augurarsi di avere davanti dei tempi semplicemente vivibili.

Questa “Barca nostra” è una cartina al tornasole di tutte le contradizioni di questi tempi “interessanti”. Ci sono le contraddizioni plateali del sistema che mette in mare (nello stesso mare di “Barca nostra”) le immense navi da crociera, simbolo di una spensieratezza che suona decisamente anacronistica. Ma ci sono anche le contraddizioni di un sistema creativo e culturale che si chiama fuori da questo insulso esercizio di potenza consumistica, accontentandosi però troppo spesso di rifugiarsi nella nicchia del sentimentalismo e del pensiero corretto. Ad esempio, chiamare “nostra” quella barca è una oggettiva forzatura delle cose: su quella barca ci erano saliti altri, ci sono morti altri. È una barca terribilmente “loro”.

Certamente è un segno potente, che restituisce il peso tragico di quel che è avvenuto in quel mare che, sì, è “nostro”. Fosse stato accompagnato con umiltà (e coraggio) intellettuale da un’implorazione o da una preghiera, sarebbe stato anche un gesto davvero umano e pienamente culturale.


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