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Centri antiviolenza: no alla schedatura delle donne

Il Cadom - Centro Aiuto Donne Maltrattate è stato escluso dai finanziamenti regionali. La Regione infatti chiede codice fiscale e dati delle donne. Le volontarie ribadiscono il loro no a una richiesta che per loro viola la legge sulla privacy e la metodologia dell'accoglienza. In una lettera aperta alle consigliere dei comuni della provincia di Monza e Brianza spiegano le ragioni della loro posizione e esprimono il desiderio di continuare a lavorare a favore delle donne

di Antonietta Nembri

Per il suo “No” alla schedatura delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza, il Cadom – Centro aiuto donne maltrattate, organizzazione di volontariato monzese è escluso dai finanziamenti regionali per il prossimo semestre. Le donne dal Cadom in una nota ricordano che “persistendo la richiesta della Regione Lombardia di ottenere il codice fiscale e i dati personali delle donne che si volgono ai centri antiviolenza” avevano confermato al comune di Monza (capofila della rete Artemide – rete interistituzionale della provincia di Monza-Brianza) che non avrebbero firmato la proroga della convenzione.

Secondo l’associazione le richieste regionali “violano la legge sulla privacy” e come rilevato dai Centri Antiviolenza della rete nazionale Dire (Donne in rete) il consenso eventualmente espresso dalle donne «potrebbe non essere espresso validamente nel momento in cui una donna è in una condizione di massima vulnerabilità». Inoltre continua la nota di Cadom “violano la metodologia dell’accoglienza che prevede il rispetto dell’anonimato e della riservatezza”, inoltre “richiedono dati sensibili non necessari per l’analisi statistica del fenomeno prevista dalla normativa nazionale e internazionale” e infine, “rappresentano una forma di ‘violenza economica’ inaccettabile per le donne di un’organizzazione che mette a disposizione del territorio ogni anno 7.900 ore di volontariato per combattere ogni forma di violenza” oltre che essere “discriminatorio verso le donne che chiedono aiuto e vogliono rimanere anonime”.

La non sottoscrizione della convenzione avrà come conseguenza che il Cadom dovrà lasciare dopo 18 mesi di lavoro gli sportelli di Lissone, Brugherio e Seregno che saranno affidati agli antri due centri antiviolenza di Rete Artemide che hanno invece firmato la Convenzione. Nella nota del Cadom si sottolinea come la prima conseguenza sarà “almeno fino a fine anno” il non pieno utilizzo delle competenze e delle risorse che da 25 anni l’Odv mette a disposizione delle donne che chiedono aiuto. Sono state 180 le donne che nei primi sei mesi del 2019 sono state accolte, 123 quelle che hanno avviato un percorso di uscita e 371 i colloqui individuali di accoglienza «questo lavoro non si improvvisa su un territorio», ribadiscono le donne del Cadom.

Ma queste difficoltà non fermano il Cadom che assicura: “continuerà la sua attività di accoglienza e supporto delle donne nella sede storia di via Mentana a Monza”, inoltre “rilancerà nuovi progetti di prevenzione nelle scuole, di sensibilizzazione sul territorio, di formare nuove volontari” come prure di creare “gruppi di auto-mutuo aiuto e di percorsi di autostima”. Tra settembre e novembre prossimi, inoltre, Cadom celebrerà i suoi 25 anni di attività a Monza e in provincia – tra le iniziative anche l’inaugurazione a Limbiate di “Casa Grazia” realizzata in collaborazione con un’associazione storica del territorio e destinata a ospitare donne in temporaneo stato di disagio.

Le volontarie del Cadom, inoltre, hanno scritto una lettera aperta alle consigliere comunali dei Comuni della provincia di Monza e Brianza in cui ribadisce, da un lato la volontà di non “essere un centro di distribuzione di servizi in emergenza”, ma piuttosto uno “spazio sicuro e accogliente per le donne del territorio”.
Nella missiva si ricorda il Progetto politico alla base, nel 1994 della nascita del Cadom in cui si legge: “costruire un Centro di aiuto per donne maltrattate per noi vuol dire operare per modificare i rapporti fra le donne. Noi abbiamo messo al centro del nostro progetto non la donna o le donne, ma la relazione tra le donne. Questo significa che non ci limitiamo a fornire assistenza o servizi; (…) Noi abbiamo l’ambizione di curare altri aspetti del rapporto con la donna che si rivolge al nostro centro. Qui trova rispetto, stima, ascolto, non giudizio ma solidarietà, attenzione e competenza. Solo così crediamo sia più facile per lei trovare le sue soluzioni ai suoi problemi. Lei usa le nostre competenze e noi usiamo le sue, lei la nostra forza di gruppo e noi la sua grande resistenza e così via in uno scambio continuo ed in continuo arricchimento reciproco…. Noi crediamo che nessuna donna possa chiamarsi fuori dalla violenza, sia che momentaneamente stia subendo, sia sapendo che sono altre donne a subirla; la violenza pesa comunque sul genere femminile e quindi su tutte noi. Lavorare al centro ci permette di cambiare anche la qualità della nostra vita: finché una donna sarà trattata male, tutte noi, in quanto donne, saremo trattate male. Viceversa siamo sicure che, per ogni donna che esce dalla violenza, un’altra non ci entrerà. Dare cittadinanza, voce, universalità al problema di una donna, fa crescere la cultura delle donne e quindi la società. Per questo diciamo che il nostro è un progetto politico”. (in allegato il testo integrale)


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