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Che fine ha fatto il futuro? Giovani, politiche pubbliche, generazioni

Chiunque si sia occupato come “educatore” dei giovani conosce un segreto sconcertante: i giovani non esistono. Esiste Luca, Giorgio, Elisa, Marina, Lucia, persone diversissime, con storie e traiettorie a volte opposte. Certo, hanno qualcosa che li accomuna: hanno tutti un’età anagrafica simile e un marchio appiccicato addosso: "i giovani"

di Pietro Piro

Singolarità significante unica

Chiunque si sia occupato come “educatore” dei giovani conosce un segreto sconcertante: i giovani non esistono. Esiste Luca, Giorgio, Elisa, Marina, Lucia, persone diversissime, con storie e traiettorie a volte opposte. Certo, hanno qualcosa che li accomuna: hanno tutti un’età anagrafica simile e un marchio appiccicato addosso: giovani.

Tuttavia, Luca ha la terza media non ha mai voluto studiare, abita in un piccolo paese nella pianura Padana. A sedici anni ha cominciato a lavorare come meccanico e oggi a trentaquattro anni, lavora in un’azienda che fabbrica trattori. È stato sposato e ha due figli. Adesso è separato ed è tornato a vivere con i suoi genitori.

Elisa è nata in provincia di Torino. Ha trent’anni e sta finendo un dottorato di ricerca in Italianistica. Ha sempre affiancato lo studio con lo scoutismo, il volontariato, lo sport. Ha fatto tanti “lavoretti” ma il suo desiderio e quello d’insegnare.

Giorgio ha appena compiuto trentacinque anni. Dopo il diploma in ragioneria ha cominciato a lavorare in una piccola azienda di prodotti alimentari in provincia di Benevento. Oggi è responsabile di produzione di un’azienda che produce pasta. Si è sposato e ha due bambini.

Marina quest’anno compie trentacinque anni. È nata in provincia di Caltanissetta. Ha studiato in Germania dove adesso vive. Pediatra. Ha lavorato due anni in Africa dove ha lottato contro malattie che in Occidente non esistono più. Non è sposata “per scelta”.

Lucia ha compiuto trentasei anni. Diplomata in un liceo artistico non è mai riuscita a inserirsi nel mondo del lavoro. Ha sempre fatto dei “lavoretti in nero”. Decorazioni, fondali per qualche Bar, piccolo artigianato da vendere nelle bancarelle. Assiste la madre malata.

Se continuassi in questo elenco di “giovani”, credo che ci si accorgerebbe sempre di più, che ogni persona è una singolarità significante unica, e che non esistono due storie identiche. Ognuno è portatore di bisogni diversi, di richieste da fare alla cosa pubblica, sogni e ambizioni.

Ci sono delle similitudini, delle “tendenze generazionali” ma sono tutti parametri che perdono aderenza quando ascoltiamo una storia di vita e la inquadriamo nel vissuto.

Parlare dunque di “giovani”, così come di “anziani”, o di “lavoratori” è sempre molto difficile, perché si rischia una generalizzazione che non aiuta a capire nella differenza, quale sia l’elemento comune, il nomos (inteso come consuetudine, costume) di una generazione.

I ritardi della politica

Credo che il libro della sociologa Marina Mastropierro, Che fine ha fatto il futuro? Giovani, politiche pubbliche, generazioni, Ediesse, Roma 2019, riesca in questo intento. Argomentato e approfondito, riesce – a mio avviso – a fissare dei “punti d’attacco” per riuscire a guardare alle politiche rivolte ai giovani con lucidità.

Libro intensamente politico perché insiste su fatto che per sopperire alle fragilità dei giovani: «è importante che le politiche pubbliche svolgano un ruolo «riparatore». Spetta a loro il compito di redistribuire il potere tra le generazioni, in modo che la bilancia sia in equilibrio tra le diverse fasce d’età. Le politiche pubbliche stabiliscono quando un individuo deve entrare e uscire dal mercato del lavoro, quando deve cominciare a votare, quando inizia l’obbligo scolastico e quando finisce ecc. Sono loro che scandiscono e formalizzano le diverse fasi di vita e le condizioni di benessere che ogni generazione esperisce nel corso del tempo. Le politiche pubbliche sono idee in azione e servono a dare forma al futuro» (p. 18).

Secondo Mastropierro i giovani hanno tentato con il movimento «new global» ad affermare una propria visione del mondo ma sono stati respinti indietro da una feroce repressione che li ha spinti lontani dalla politica, generando una diseguaglianza di potere reale tra le generazioni.

Mastropierro non accetta l’ipotesi del “ritardo” dei giovani attribuendolo ad aspetti motivazionali (gli schizzinosi) ma a un ritardo delle politiche pubbliche (p. 19). Ritardo che ha reso la fascia d’età 30-40 fortemente ricattabile sul piano sociale e politico.

Anche le politiche «di empowerment recentemente proposte a livello locale hanno promosso la questione del «rafforzamento delle capacità» individuali, senza porsi il tema della redistribuzione delle risorse e dei poteri tra le generazioni in un’ottica sociale, collettiva e intergenerazionale» (p. 74).

Nel ragionamento di Mastropierro sviluppo economico e giustizia sociale devono muoversi insieme: «Porsi il tema dell’attivazione senza quello della solidarietà e della giustizia sociale intra e intergenerazionale è come stimolare la testa senza mettere in moto le gambe, una specie di dematerializzazione del corpo sociale delle generazioni» (p. 74). Sterilizzare le generazioni della componente politica ha prodotto interventi che non sono riusciti a durare nel tempo e a trasformarsi in paradigmi di crescita e sviluppo capaci di veicolare e affermare nuove strutture economiche e sociali.

Fa bene Mastropierro a citare Hannah Arendt, dove afferma che: «Generare non è un atto isolato, un evento che accade nell’attimo e lì inizia e si conclude. Generare è un’azione iterativa che ha almeno due movimenti: dare inizio (archein) e far durare (prattein), portare a compimento» (p. 121). Occorre uscire dalla logica emergenziale che riconosce nei giovani un elemento di problematicità escludendo ipotesi di riscrittura del contratto sociale.

Il gioco delle generazioni, come sostiene il sociologo francese Gerard Mauger, non è mai neutro e le ridefinizioni storiche delle fasi di vita, giovinezza così come vecchiaia o adultità, sono il risultato di lotte sociali e, in particolar modo, dei rapporti di forza che intercorrono tra le generazioni. Ognuna di esse ha un peso, che fa valere nella relazione con le altre componenti che partecipano al grande «gioco delle generazioni»

Mimmo Carrieri

Proposte

Mastropierro propone un Manifesto di welfare generazionale dalla consapevolezza che: «il lavoro non sembra più avere un primato sull’ambiente o sulle relazioni sociali, al contrario si pone in relazione con essi cercando di valorizzarli e restituire loro dignità. Si sperimentano nuove professioni basate sulla mobilità sostenibile e sulla rigenerazione urbana, così come d’inclusione dei migranti nei progetti di solidarietà sociale; si affacciano nuove forme d’intimità caratterizzate da una forte riscrittura dei rapporti tra i generi e compaiono forme inedite di genitorialità e maternità. Questi mutamenti non sono supportati dalla presenza di un quadro di regole e diritti che dà possibilità al «futuro» di prendere corpo. A partire dalla centralità dei bisogni» (p.124). Questi i punti principali:

1) Adozione di un reddito minimo garantito;

2) Riduzione dell’orario di lavoro;

3) Permettere un più facile accesso all’Università riducendo tasse e aumentando le borse di studio;

4) Favorire l’autonomia abitativa e l’accesso al credito.

A chiusura delle sue proposte l’autrice scrive: «come è possibile rafforzare le capacità degli individui se non si pongono al centro delle azioni pubbliche i temi della redistribuzione del potere tra generazioni e classi sociali e se non si ricomincia a dare valore ai supporti sociali necessari alla costruzione delle individualità?» (p. 148).

Non possiamo che darle ragione e supportarla nella lotta. Parlare di giovani generazioni privandole di quella base materiale assolutamente necessaria per l’autonomia significa dare vita a un cattivo futuro.

La violenza politica

C’è un elemento che ritengo importante nel rapporto tra le nuove generazioni e la realtà sociale: l’uso della violenza politica.

Credo si possa dire che nonostante una parte delle nuove generazioni sia stata esposta alla precarietà, ai salari da fame, alla mancanza di riconoscimento e una sostanziale marginalità, non abbia riconosciuto nella via della violenza politica una strada percorribile per risolvere i conflitti in cui è immersa.

Si tratta di una sostanziale maturazione? Di un rifiuto cosciente? Oppure è un segno di una profonda perdita d’interesse per la realtà?

Credo sia difficile dare una risposta certa. Dai colloqui che ho avuto con giovani gravemente esposti alla marginalità, l’ipotesi di poter risolvere i problemi attraverso la violenza è sempre emersa come un’ipotesi remota. Credo sia molto importante dedicare la giusta attenzione a questo “rifiuto”.

Potrebbe nascondere un avanzamento della coscienza collettiva verso una profonda spiritualità, oppure – ed è ipotesi tragica – una totale rassegnazione e appiattimento allo status quo.

Ha fatto bene Marina Mastropierro a scegliere Danilo Dolci come citazione iniziale del suo volume. Perché ci ricorda che possiamo uscire dalla palude solo educando all’utopia e al sogno:

C’è pure chi educa, senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo,

aperto a ogni sviluppo ma cercando d’essere franco all’altro come a sé,

sognando gli altri come ora non sono:

ciascuno cresce solo se sognato.

E noi, cosiddetti adulti, sogniamo i nostri giovani, oppure, abbiamo preso il vizio di sognare per loro?


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