Solidarietà & Volontariato

Lodi, la fotografia come intervento sul reale

«Il Festiva della fotografia etica di Lodi, oltre che un viaggio nel reale, è anche questo: l’osservazione, dietro le quinte degli scenari più caldi del presente, del lavoro di persone e organizzazioni che non rinunciano a uno sguardo diverso sulla politica, sull’economia, sull’ambiente, sul mondo. Uno sguardo che, come testimoniato dalle fotografie in mostra, sembra del tutto necessario»

di Marco Fumagalli

è in corso, ancora per il prossimo fine settimana del 26 e 27 ottobre, l’edizione 2019 del “Festival della fotografia etica di Lodi”. Il festival, al suo decimo anno di attività, propone ormai secondo consuetudine una ricchissima selezione di lavori, disposti nelle sette sedi espositive maggiori, a cui si aggiunge l’abbondante offerta del “Circuito Off fuori festival”. La quantità e la varietà delle esposizioni consentono numerose, e molto diverse, possibilità di fruizione dell’offerta complessiva del festival: l’attenzione al livello contenutistico dei lavori, lo sguardo rivolto alla dimensione estetica e ai linguaggi iconografici delle fotografie, la considerazione del disegno complessivo della realtà composta – come in un mosaico – dalle singole tessere… tutti questi possibili atteggiamenti permettono al visitatore di percorrere e ripercorrere, in modo autonomo e personale, gli itinerari tra le mostre che si incrociano nel centro cittadino di Lodi.

Un buon modo per prendere contatto con le materie dell’edizione 2019 del festival potrebbe essere quello di orientarsi secondo un primo criterio di tipo geografico, d’altra parte suggerito dagli organizzatori stessi con la creazione di due gruppi di esposizioni radunate rispettivamente nello Spazio tematico “Italia” e nello Spazio “Uno sguardo sul mondo”.

Il primo colpisce per la varietà di prospettive aperte sul contesto, almeno apparentemente, a noi più vicino e noto. Il lavoro “Serra Maggiore” di Mariano Silletti – dedicato all’omonimo borgo rurale costruito a seguito della riforma agraria degli anni Cinquanta nelle campagne della Basilicata, poi interessato da una forte emigrazione e oggi ridotto a pochi abitanti – sceglie il linguaggio di una luce tenue, tra il grigio e l’ocra, come la terra su cui vive questa manciata di persone, per porre in una sorta di dimensione fuori dal tempo la loro quotidianità e le ritualità ancestrali che resistono in questo angolo di Sud Italia.

Ancora il Sud Italia e la sua luce si ritrovano in “Prima comunione” di Diana Bagnoli, dedicato al fenomeno dei festeggiamenti riservati a Napoli a questa occasione, tramutata da fatto religioso a rito – sembra contenutisticamente vuoto – di ingresso sociale, con tratti di calcata ostentazione. L’attenzione al dato coloristico, da parte del fotografo, rivela la natura di messa in scena quasi farsesca legata al rito della vestizione e del trucco delle bambine, pronte a calcare la scena di location ingenuamente scenografiche, come quella divenuta celebre in una trasmissione televisiva.

Una scenografia squarciata, nella percezione del visitatore, anche dall’accostamento di questo lavoro con il drammatico “Epidemic” di Massimo Berruti, inchiesta fotografica nella stessa regione campana sulla condizione della cosiddetta Terra dei Fuochi. In questi terreni ai margini dei tessuti urbani, l’autore ha voluto – con la pulizia di linguaggio del bianco e nero – visitare le pieghe sociali di nuovo più marginali: il gioco di bambini di etnia rom nei terreni avvelenati, tra i loro accampamenti e discariche abusive fumanti; gli sguardi e i pianti delle madri, in processione, che ricordano i loro figli morti per malattie indotte dall’inquinamento; scene di cortei e proteste che testimoniano una tensione sociale e un senso di distanza dalle istituzioni molto maggiore di quanto, in quest’epoca, già si possa essere al corrente.

La realtà, e in particolare la realtà del brutto, si prende definitivamente la scena con le fotografie di Marco Valle, raccolte nel lavoro “Mare nostrum”: il nostro mare è ritratto nella sua forma peggiore, tra rovine costiere della civiltà industriale, stabilimenti balneari in rovina, canali che conducono verso spiagge comunque frequentate dai bagnanti acque sporche e schiumose. L’autore compie qui una scelta, davvero, di etica professionale: ritraendo i paesaggi marittimi, sceglie di spostare il proprio obiettivo dalle frequenti inquadrature vacanziere e suggestive quel tanto che basta per comprendere nel proprio sguardo questi monumenti al degrado, di solito accuratamente rimossi dai diari di viaggio e di gita al mare. Un’idea della fotografia come modo per farsi carico della realtà.

Sostanzialmente, non si è vista la città in questi lavori raccolti nello Spazio tematico "Italia": ne deriva un’immagine del nostro paese ritratto principalmente dai luoghi agresti, extraurbani e periferici, tra resistenze del passato rurale e l’impatto della modernità soprattutto industriale e urbana, che non si vede ma è presentissima, sottoforma dei surrogati di pratiche di distinzione sociale, dei rifiuti e dei resti edilizi espulsi dal ciclo produttivo e lasciati in eredità al presente e al futuro del paesaggio ferito.

In parte diverso, ma ugualmente interessante, il discorso che emerge – nella stessa sezione del festival – dal lavoro firmato da TerraProject Photographers, “Forza lavoro e scuola oggi”: il viaggio in questi due aree della vita associata italiana mette in luce, tra punti di forza e difetti, la natura in fondo laboratoriale della scuola per prima e dei luoghi di lavoro poi, come spazi di amalgama, di incontro, di attrito e di convivenza della composita molteplicità sociale contemporanea. Da segnalare le foto, riprese da lontano oppure dall’alto, di luoghi di lavoro industriale e impiegatizio e degli spazi (soprattutto palazzetti sportivi) adibiti a sedi di concorsi pubblici: emergono bene i concetti di serialità e di massa, almeno in senso quantitativo, che sono o sono stati al fondo della descrizione del lavoro nella modernità novecentesca; che dunque potrebbe avere più di qualche elemento di continuità con la contemporaneità.

A proposito della forza e delle possibilità di intervento sul reale da parte del mezzo fotografico, è infine (per quanto riguarda lo spazio dedicato nel festival all’Italia) senza dubbio da non perdere “Letizia Battaglia Fotografie”, una selezione di lavori della grande fotografa, opportunamente isolati in uno spazio autonomo di Palazzo Modignani. Le immagini in bianco e nero – che per la maggior parte documentano omicidi di mafia nella Sicilia della seconda metà del Novecento, e il contesto di miseria in cui alcuni di quei fatti sono germinati – sono in grado di compiere un salto dalla dimensione della documentazione a quella della meditazione sul dolore, sulla morte, sul male; in fondo, sull’uomo.

È interessante mettere questo già ricco ventaglio in relazione con la proposta nel festival di autori e temi internazionali, di cui la citata sezione “Uno sguardo sul mondo” dà un saggio significativo. Qui l’impronta della stretta attualità si fa più ancora marcata: l’interessante prospettiva di “Tourism in the climate change” di Marco Zorzanello, l’intensa rappresentazione di “I Gilet gialli” firmata dai fotografi di AFP e il lavoro “La Carovana” (di Guillermo Arias e Pedro Pardo in collaborazione con AFP) dedicato alla migrazione, strutturatasi in una grande colonna umana nel 2018, dal Centro al Nord America, propongono una sorta di sommario degli accadimenti degli ultimi mesi e ancora in corso.

Persino bruciante sembra l’effetto prodotto, nella stessa sezione del festival, dal dialogo tra due preziosi lavori di documentazione e narrazione per immagini: “Guerriglieri curdi” e “Garden of Delight – Il giardino delle delizie”. Il primo progetto, firmato da Joey Lawrence, indaga sia il ruolo sia l’identità personale e umana degli uomini e delle donne fotografati, coerentemente, sia in azione sia, soprattutto, in ritratti isolati dallo sfondo della battaglia: i volti segnati ma fieri sembrano interrogarci sulla sorte a cui, quelle persone, stanno andando incontro in queste giornate dell’acuirsi dell’assedio alla loro terra. Ma dalle immagini di questi uomini e donne in divisa sembra derivare, in realtà, soprattutto una forte dimensione di senso delle cose, di vita: la convinzione degli sguardi, il gioco di bambini sulla canna di un cannone a riposo, il rito del tè – così carico di storia, di identità – sapientemente condotto da un guerrigliero ritratto in un attimo di pausa. La vita resiste, la vita va avanti, la vita persino brulica tra le macerie delle città e dentro la comunità di questi resistenti. Una vitalità e un senso di cui, invece, si avverte la mancanza negli oggetti del lavoro “Garden of delight” di Nick Hannes, dedicato al lusso, agli svaghi, alla ricchezza tanto sperequata che caratterizzano lo stile di vita dei ceti più abbienti a Dubai. Le fotografie fanno risaltare il dato artefatto di questo esclusivo pezzo di realtà: tra alberi di Natale sfarzosamente addobbati al fianco di lussuose piscine, impianti di sport e giochi invernali innevati in uno spazio chiuso nel deserto arabico, uomini e donne si muovono come nella messa in scena di una ricchezza sfrenata. «La fotografia che preferisco di questo mio lavoro – ha dichiarato Nick Hannes in uno degli incontri con gli autori che arricchiscono il festival – è quella di una strada che, dal nulla, arriva in un punto di deserto, fa una curva a U e torna indietro. Si tratta di uno spezzone stradale costruito come punto d’innesto dell’eventuale nuova espansione edilizia. Ora è un manufatto inutile, che non va da nessuna parte; e che per me indica, simbolicamente, l’idea di un vuoto, di una mancanza di senso». Il confronto tra le opposte condizioni di benessere materiale, e tra la diseguale impressione di vita autentica ricavate dall’uno e dall’altro dei mondi ritratti dai due progetti è, dunque e infine, impietoso e doloroso.

L’esperienza del dolore, d’altra parte, è una delle dimensioni costitutive del festival, sia a livello di contenuti sia a livello di esperienza del visitatore: basti la citazione del lavoro, potente e straziante, “Vivere con un dollaro al giorno. Le vite e i volti dei poveri del mondo” della premio Pulitzer Renée C. Byer. La raccolta, compresa nello Spazio “World.report award”, è valsa il terzo premio all’organizzazione Positive Change Can Happen (tesa al cambiamento sociale attraverso la compassione e con interventi mirati nel campo dell’istruzione) nella speciale classifica di riconoscimenti appunto assegnati dal festival agli enti no profit. Il primo premio è andato quest’anno a Emergency, in relazione al lavoro fotografico di Giulio Piscitelli “Zekhem – Ferite. La guerra in casa” dedicato ai centri chirurgici di Emergency a Kabul e Lashkar-gah, in Afghanistan.

D’altra parte il Festiva della fotografia etica di Lodi, oltre che un viaggio nel reale, è anche questo: l’osservazione, dietro le quinte degli scenari più caldi del presente, del lavoro di persone e organizzazioni che non rinunciano a uno sguardo diverso sulla politica, sull’economia, sull’ambiente, sul mondo. Uno sguardo che, come testimoniato dalle fotografie in mostra, sembra del tutto necessario.

La biglietteria della mostra è a Lodi in piazza del Broletto, attigua alla maggiore piazza della Vittoria. In cover, fotografia di Marco Valle


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