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Dialogo con Massimo Iiritano. La catastrofe e la speranza

Il terremoto di Lisbona, con 100mila morti in un sol giorno, nel 1755, cambiò per sempre la filosofia della storia. Oggi invece i filosofi tacciono. C'è una parola possibile? «L’alternativa, purtroppo reale, che più dovremmo temere, è che tutto torni come prima. Potremmo dire, con Benjamin, che la vera catastrofe è sempre che tutto continui, nonostante tutto, come prima. Ciò che manca è la speranza nell'apocalisse. Perché come diceva Quinzio, "La verità di un uomo non è tale che dinanzi alla sua morte. Così anche la storia"».

di Sara De Carli

Il terremoto di Lisbona, che si verificò il primo novembre 1755, fu una catastrofe tra le più impressionanti dell’epoca moderna. In un solo giorno causò la morte di quasi 100.000 persone. Fu una sorta di breaking news planetaria, ante litteram. Se ne interessarono scienziati e filosofi, letterati e artisti. Fu un avvenimento epocale che scosse le coscienze dell’epoca. Dopo quel terremoto, nella filosofia, cambiò tutto. Una voce che non si sente, in queste settimane, è quella dei filosofi. Un dialogo con Massimo Iiritano, filosofo, docente all’IIS Guarasci-Calabretta di Soverato e presidente dell’associazione Amica Sofia.

Perché questo silenzio?


È difficile intervenire oggi, ancora. Il paragone con il terremoto di Lisbona in tal senso ci fa capire bene cosa intendo dire. Se è vero infatti che la filosofia, come ripeteva Hegel, è quella “nottola di Minerva che si alza solo sul far del crepuscolo”, purtroppo questo tanto agognato crepuscolo non sembra alla portata del nostro orizzonte. Intervenire oggi, cercare di pensare il senso di ciò che sta avvenendo, di cui purtroppo non possiamo ancora vedere una fine, significa allora forse cercare di pensare il senso di questo “tempo sospeso” che stiamo vivendo, piuttosto che provare a immaginare cosa sarà dopo. Il senso radicale di incertezza nel quale siamo piombati, ci dice infatti, innanzitutto, la manzoniana crisi di ogni scientificità moderna. Con Manzoni prima, nel nostro caso dopo la modernità. Quando mille interpretazioni, indagini, analisi, ricerche, non sanno ancora concordare in maniera soddisfacente su un unico risultato e, quel che è peggio, su un’unica strategia di difesa. Un’insecuritas radicale ci circonda e ci domina, nel tempo in cui ci viene richiesto di fermarci a pensare. È questo forse il primo “segno” che possiamo tentare di leggere e di decifrare. Ciò che dovrebbe soccorrerci e sorreggerci allora, in tale incertezza diffusa e condivisa, dinanzi ad un’emergere inquietante di ansie e timori ancestrali a noi stessi ancora ignoti, sarebbe il sentimento leopardiano di essere parte di un destino comune: fondamento da troppo tempo ignorato e vilipeso del nostro vivere civile. Riuscirà questa immane e smisurata “catastrofe” che ci sta travolgendo a indicarci dopo, almeno in tal senso, una direzione di radicale svolta epocale? È questo forse, al momento, il solo interrogativo al quale possiamo sospendere la nostra più autentica speranza.

Ciò che dovrebbe soccorrerci e sorreggerci, dinanzi ad un’emergere inquietante di ansie e timori ancestrali a noi stessi ancora ignoti, sarebbe il sentimento leopardiano di essere parte di un destino comune: fondamento da troppo tempo ignorato e vilipeso del nostro vivere civile. Riuscirà questa immane e smisurata “catastrofe” che ci sta travolgendo a indicarci dopo, almeno in tal senso, una direzione di radicale svolta epocale?

Massimo Iiritano

Eppure c’è una disciplina – la filosofia della storia – che più di tutte dovrebbe avere qualcosa da dire. È vero che probabilmente abbiamo tutti da tempo interiorizzato quel titolo efficace circa la “fine della storia” e non ci appartiene da tempo la visione della storia come qualcosa che ha una direzione positiva e un senso… però. Però una filosofia della storia non è necessariamente una visione positivistica di un tempo che corre evolutivamente verso il suo telos, né una teodicea. Ci sono anche visioni che sono capaci di porsi il problema dello scandalo del male e dell’assurdo senza per questo cedere al nichilismo, al relativismo e al naufragio nell’indifferenza del nulla e del senso. Ci sarà pure una parola da dire anche in questo frangente. C’è? E se no, perché no?

Qui il livello della riflessione si fa più profondamente filosofico, e teologico. C’è una parola chiave intanto, nel tuo discorso, che in questi giorni sembra tornata di attualità. Ed è proprio la “teodicea”. Una teodicea paradossalmente non più teologica ma laica, frutto di una compiuta secolarizzazione dei nostri orizzonti di pensiero e di speranza. Mi hanno colpito molto i messaggi e i video di tanti profeti del nostro tempo – quelli che magari fanno pagare fior di quattrini per le loro affollate conferenze per intenderci – che circolano in questi giorni sui social. Messaggi nei quali, a volte anche in forma poetica, si sfiora in alcuni tratti una sorta di “elegia” al virus, che nasce provvidenziale nelle pieghe dei nostri eccessi e dei nostri errori per portarci a cambiare rotta; o anche addirittura come autodifesa di Madre Natura contro la malvagità di noi umani. Quanto mi è stato vicino in questi momenti, il caro Leopardi! Quanto sarebbe importante tornare a lezione da lui! Dove, quando e come la tanto lodata Natura è stata nostra madre benigna? Siamo sicuri che tutto il male che indubbiamente l’uomo ha provocato e provoca all’ecosistema non abbia alla sua radice proprio un primordiale istinto di difesa nei confronti di una Natura spesso piuttosto ostile e matrigna? Che ne sarebbe stato della nostra gloriosa specie umana nella sua versione moderna, ecologista e orientaleggiante, senza le dosi massicce di pennicilina antibiotici antitumorali, le mille difese contro le avversità atmosferiche e le catastrofi naturali? Ecco ancora il terremoto di Lisbona…

Crediamo davvero, per dirla con Dostoevskij, che la sofferenza e la morte solitaria e tragica di tanti possa essere proposta come “biglietto” utile per una possibile “redenzione” futura? Ecco il fantasma della teodicea, che in altre vesti ritorna. E qui ad ognuno di noi è chiesto di prendere posizione.

Ed ecco qui un crocevia essenziale per la nostra coscienza: vogliamo reagire alla catastrofe nel sentimento pagano di fatalità e di resa dinanzi alla potenza sovrana della Natura e del Tutto? Oppure crediamo che possa esserci un senso e una direzione “umana” a questo nostro passare come pulviscolo insignificante in questo “atomo oscuro del male” (Pascoli) in cui ci è dato di vivere e sperare? Crediamo davvero, per dirla con Dostoevskij, che la sofferenza e la morte solitaria e tragica di tanti possa essere proposta come “biglietto” utile per una possibile “redenzione” futura? Ecco il fantasma della teodicea, che in altre vesti ritorna. E qui ad ognuno di noi è chiesto di prendere posizione. In questo senso, la filosofia può davvero dirci qualcosa. Anzi credo proprio che dovrebbe farlo. È giusto, come dici tu, lamentare in tal senso il silenzio e l’indifferenza quasi della filosofia dinanzi a questo. È forse giunto finalmente il momento epocale di dire veramente addio ai torpori consolanti del nichilismo. O meglio di comprendere veramente la sua lezione, ripartendo proprio da Nietzsche.

Nel secolo scorso, con Capitini, Tartaglia, Dolci… ci fu un pensiero molto forte attorno all’idea di apocalisse, cioè che la storia avesse bisogno di un salto al di là dell’abisso, una discontinuità, una novitazione pura la chiamavano, per entrare in una realtà incommensurabile rispetto a tutto ciò che era stato sperimentato fino ad allora. Tutto questo discorso, allora, ebbe una declinazione religiosa, ma potenzialmente c’era una forte direzione politica, pratica, etica. Sergio Quinzio – che parlava della necessità di inventare la storia – scrisse: “La verità è che ha subito un crollo terribile la capacità dell’uomo di credere e sperare. Questa capacità, che era contenuta nella religione, non si è travasata se non in minima parte nella cultura e nella civiltà moderne. Gli uomini di oggi, pur nutrendo una palese ma inspiegabile insoddisfazione, che non sanno chiamare per nome, sono così abituati alla mediocrità da non riuscire a immaginare nulla di diverso dal presente e per questo gestiscono tutto attraverso una progressiva tecnicizzazione, all’insegna del “meno peggio”» (Religione e futuro). E anche: «la società in cui viviamo possiamo variamente indicarla come società dello spettacolo, della simulazione, della post-storia, della fine del politico o del sociale: una società dove non c’è più orizzonte, destino, dialettica, né possibilità di trasgressione o di superamento ma solo un universo freddo, pacificato, privo di consistenza, trasparente, osceno nell’indifferenza al suo gioco di opinioni. Non c’è più spazio per la resistenza eroica e questa è l’estrema disillusione. Si è imparato che l’utopia vive solo nell’infelicità del suo differimento e muore nella sua realizzazione. Si è persa la Speranza non perché si crede che il suo Oggetto non si realizzerà mai ma perché, realizzato, non cambierebbe in realtà nulla». In queste settimane, in tanti hanno sottolineato l’opportunità di questo momento come momento di cambiamento radicale, di azione, di inventare qualcosa di radicalmente altro e di incominciare qualcosa di nuovo. A noi oggi concetti come apocalisse e eschaton dicono poco o nulla. Ci possono invece aiutare? Come?


Ti sono davvero grato delle bellissime citazioni del mio caro maestro Sergio Quinzio, la cui voce in questa situazione sarebbe quanto mai necessaria. Nei passi da te riportati possiamo chiaramente rivedere noi stessi, la nostra epoca, quella che si distende ancora come dicevo prima, nei torpori del nichilismo. Incapace di speranza, di senso del futuro, di immaginare e volere una direzione escatologica per la nostra storia, vissuta da tempo ormai come “uomini postumi”. Ma quel sentimento apocalittico, che in tante forme animava ancora la coscienza civile, politica e religiosa di quegli anni, è ormai del tutto lontano da noi. Il significato autentico di questa stessa parola, “apocalisse”, da troppo tempo ormai inevitabilmente ci sfugge, ci appare lontano. Non lo sentiamo più nostro. Proprio perché di quel sentimento ci manca la radice messianica, la speranza e il bisogno di futuro che per secoli e millenni ha animato le nostre “storie dell’inquietudine” come le definiva Augusto Placanica.

Quel sentimento apocalittico, che in tante forme animava ancora la coscienza civile, politica e religiosa di quegli anni, è ormai del tutto lontano da noi. Il significato autentico di questa stessa parola, “apocalisse”, da troppo tempo ormai inevitabilmente ci sfugge, ci appare lontano. Non lo sentiamo più nostro. Proprio perché di quel sentimento ci manca la radice messianica, la speranza e il bisogno di futuro che per secoli e millenni ha animato le nostre “storie dell’inquietudine” come le definiva Augusto Placanica.

Eppure, scenari catastrofici non mancano intorno a noi. Basta dare uno sguardo alla letteratura e alla cinematografia che più appassiona i nostri adolescenti, per non parlare delle tante serie televisive che a questo si ispirano. Scenari catastrofici appunto, mai “apocalittici”: poiché nel loro dispiegarsi non vi è traccia alcuna di senso e direzione ultima, di verità che si disvela (apò-kalupto). Ciò che manca è, appunto, proprio la speranza. Sarà allora proprio il tragico realizzarsi, dinanzi ai nostri occhi, di quegli scenari fin qui solo virtualmente immaginati, a rompere questo guscio e ridestare in noi quella Speranza più audace? Potremo di nuovo temere e sperare, come un tempo dinanzi a tali catastrofi, che la fine possa rivelarsi paradossalmente anche un “fine”?

Tutti ci siamo resi conto dell’importanza, per le nostre vite quotidiane, di una parola bellissima e potente: speranza. Credenti e non credenti. Qual è la pregnanza di questa parola, dal punto di vista filosofico, per noi uomini di oggi?

Ecco quindi: vi può certamente essere di nuovo uno spazio grande, inaspettato, per la speranza. Un sentimento che ormai non eravamo più capaci di sentire da tempo in noi. Una speranza minore, ma assai significativa, sarebbe quella ben descritta da Massimo Cacciari in un suo recente intervento su L’Espresso: si tratta della speranza laica di una rinascita civile e politica. Ma accanto e oltre questa si nasconde e balena, ancor più inaspettata, la Speranza più grande. L’alternativa, purtroppo ancora reale, che più dovremmo temere, è proprio che tutto torni come prima. Potremmo dire ancora, con Benjamin, che la vera catastrofe è sempre che tutto continui, nonostante tutto, come prima. Mi capitava spesso, nei momenti di più intima confidenza con Sergio Quinzio, di provare a immaginare, con lui, quale fine temere e sperare. Quale forma dare a quella che nella fede escatologica ebraico-cristiana è l’ultima e la sola autentica kata-strofè della nostra storia. Ed è forse solo dinanzi a parole come queste che possiamo ancora, oggi, ritrovare un senso: «La verità di un uomo non è tale che dinanzi alla sua morte. Così anche la storia».

Questo intevento è stato pubblicato sull'ultimo numero di VITA, scaricabile gratuitamente a questo link.

Photo by Aaron Burden on Unsplash


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