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Dov’è finita la protesta per il clima?

Gli attivisti di Fridays For Future Italia e di Extinction Rebellion ci raccontano cosa hanno fatto durante questi lunghi mesi di lockdown, e della necessità di riappropriarsi delle piazze – in modo sicuro – anche in questa fase di transizione per riportare la crisi climatica al centro discorso pubblico

di Anna Toro

L’11 maggio sulla piazza di fronte al palazzo della Regione a Milano sono comparse 100 paia di scarpe, disposte ordinatamente sul pavimento ancora umido dalla pioggia. Le prime file di scarpe erano un tributo a cittadine e cittadini, medici, operatori e operatrici sociali che si sono impegnati nel contrastare il Covid-19, mentre le rimanenti simboleggiavano «le numerose vittime – passate e future – della crisi climatica ed ecologica». Si tratta della prima azione “fuori casa” dopo il lockdown di Extinction Rebellion, movimento socio-politico non violento che tramite azioni di disobbedienza civile di massa vuole sensibilizzare l’opinione pubblica sulla crisi climatica. Una manifestazione suggestiva – com’è nel loro stile – e questa volta silenziosa, con poche persone sul posto nel pieno rispetto delle norme sul distanziamento fisico imposte dalla pandemia. Pochi giorni dopo è stata la volta dei ragazzi di Fridays for Future che hanno appeso degli striscioni di protesta davanti alla sede di Enel, in occasione dell’assemblea degli azionisti Eni a Roma tenutasi a porte chiuse. Entrambi i gruppi sono poi scesi di nuovo in strada il 20 maggio, primo anniversario della Dichiarazione di Emergenza Climatica del Comune di Milano, con una pedalata per denunciare la mancata svolta del Comune in tema di politiche ambientali. Mascherine sul viso, distanziati fra loro, i movimenti per l’ambiente stanno infatti ricominciando a riappropriarsi delle strade e delle piazze a cui per mesi non avevano più avuto accesso, spariti anche dalla narrazione mediatica totalmente ingolfata dalle notizie sul coronavirus.

«Eppure l’emergenza ecologica esiste e non è meno grave. Anzi, come sostengono diversi studi, le due crisi non sono scollegate l’una dall’altra» spiega Laura Vallaro, attivista di Fridays For Future e studentessa al primo anno di Scienze forestali all’Università di Torino. Si è avvicinata al movimento a inizio 2019 dopo aver sentito parlare di Greta Thunberg e dei presidi studenteschi del venerdì in diverse città d’Italia, diventando attivista a tutti gli effetti anche nel gruppo locale della sua città, Chieri. «Con l’inizio del lockdown abbiamo dovuto trasferire tutte le nostre attività online – racconta – Per mantenere alta l’attenzione sulla crisi climatica, ogni venerdì anziché andare in piazza con i nostri cartelli e presidi pubblichiamo una foto sui social con gli hashtag #digitalstrike o #climatestrikeonline. Serve a mostrare che comunque ci siamo. E così abbiamo fatto anche il 24 aprile, in cui era previsto il grande sciopero globale per il clima: gli attivisti di Fridays For Future Italia si sono geolocalizzati sulla mappa di fronte a Palazzo Chigi, ognuno con il proprio omino virtuale, per dare un pochino l’idea di essere tutti in piazza. Alla fine eravamo in 7mila, tanto che il sito della nostra campagna “Ritorno al futuro” al mattino ha un po’ vacillato».

Niente a che vedere con i raduni oceanici e gli scioperi di massa che, insieme alle parole infuocate di Greta per chiedere ai grandi della Terra di prendersi le proprie responsabilità, avevano tanto attirato l’attenzione a livello mediatico. Ma il movimento è comunque soddisfatto. «Come tutti abbiamo dovuto cercare di adattarci – spiega Laura – Sappiamo che sui social si viene continuamente bombardati dalle informazioni e diventa un po’ più difficile per tutti focalizzare l’attenzione, ma dobbiamo andare avanti anche e soprattutto in questo momento». Secondo Fridays for Future, infatti, la pandemia rappresenta un’occasione unica per tutti i governi di ripartire in modo diverso: «Siamo convinti che per affrontare entrambe le crisi, sia quella climatica che quella economica, la soluzione sia una sola: la riconversione ecologica – continua Laura – Ma non lo diciamo soltanto noi, lo sostengono anche economisti di fama mondiale come il premio Nobel Joseph Stiglitz, in uno studio pubblicato all’inizio di maggio». Una svolta green auspicata anche dall’Europa ma ostacolata in tutto il mondo dalle solite lobby, da politiche nazionali poco coraggiose e lungimiranti, così come da una percezione generale tutto sommato vaga del pericolo, nonostante molte aree del pianeta stiano già facendo i conti con gli effetti dei cambiamenti climatici.

«Si tratta di un problema sistemico – spiega Davide Scotti, attivista di Extinction Rebellion Milano – La questione ambientale tende ad essere oscurata perché se veramente affrontata richiederebbe un tipo di intervento da parte dei governi che metterebbe in crisi la loro logica interna, a livello di sostegni economici e di conservazione del consenso». Movimento internazionale, Extinction Rebellion ha fatto parlare di sé per le grandi azioni di disobbedienza civile avvenute l’anno scorso soprattutto nel Regno Unito (ma non solo), che avevano portato all’arresto di centinaia di attivisti. Da allora il movimento si è allargato a macchia d’olio, conquistando anche il nostro Paese, forte di un’organizzazione orizzontale e trasparente, una spiccata vocazione all’azione – scioccante, radicale e “disturbativa” ma sempre non violenta – per spingere i governi a prendere impegni concreti per l’azzeramento delle emissioni di gas serra, idee originali per l’implementazione ed evoluzione della democrazia (come le assemblee cittadine per le questioni climatiche e ambientali).

«In Italia il movimento è ancora giovane, per questo non abbiamo potuto replicare azioni simili a quelle avvenute in Inghilterra, per le quali serve una grandissima base partecipativa così come un grande supporto mediatico. Ma sono fiducioso che ci arriveremo» continua Davide, che spiega come durante il lockdown il movimento ne abbia approfittato per fare tanta cultura: «Fittissimo il calendario, tra webinar, presentazioni, incontri con esperti, formazione interna, potenziamento della rete con le altre realtà con cui fare fronte comune». Tutto bene dunque? Dipende.

«Purtroppo l’attività online paga il limite di essere giocata sui social media, che funzionano come degli specchi: creano delle bolle che ti fanno credere che il mondo sia come sei tu, e rendono perciò difficoltoso arrivare a persone che già non sono interessate al problema» continua Davide. In generale l’attivismo online viene spesso caratterizzato come impulsivo, non impegnativo e deresponsabilizzante, sottolineando i minori rischi e costi dell'espressione politica sui social media rispetto alla protesta e all'impegno politico nel mondo reale. Eppure le piattaforme digitali sono meno limitate dalle strutture o gerarchie delle organizzazioni tradizionali, e possono consentire a forme completamente nuove di attivismo di prosperare. Tanto che, nonostante le criticità menzionate, anche durante il lockdown i movimenti si sono comunque allargati. La strada sembra dunque essere quella della coesistenza e rafforzamento reciproco tra il reale e il virtuale, con una certezza: nativi digitali o no, nessuno ha deciso di rinunciare alla piazza, con accortezza e creatività quali ingredienti base per un graduale ritorno. «In gioco c’è sempre la sopravvivenza dell’umanità e dell’ecosistema di cui tutti siamo parte integrante – precisano gli attivisti – Questa pandemia è solo un assaggio di ciò che accadrà se il mondo non agirà in fretta».


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