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Cooperazione & Relazioni internazionali

Cooperanti, brava gente: i loro diari lo raccontano

Le storie, i volti e le esperienze degli italiani all’estero che negli anni hanno aiutato il prossimo con spirito di servizio: uno sguardo ai loro diari aiuta a capire il mondo

di Luca Cereda

Di cooperazione e solidarietà internazionale si è fatto un gran parlare in questo periodo. A spingere sul tavolo del dibattito pubblico italiano un tema “chiacchierato” solo a suon di slogan elettorali, sono stati due fattori: l’evidenza che il Covid-19 miete vittime invisibili tra le popolazioni più povere dei Paesi in via di sviluppo, fuori dal clamore dei media. E la liberazione dopo un anno e mezzo di prigionia tra Kenya e Somalia di Silvia Romano.

Ad oggi sono 22 mila gli italiani impegnati nella cooperazione internazionale tra i quali circa il 90% opera all’estero, divisi quasi equamente tra uomini e donne. Sono i dati aggiornati a maggio di FOCSIV, la Federazione degli Organismi Cristiani per il Servizio Internazionale e il Volontario, di cui oggi fanno parte 87 organizzazioni che operano in oltre 80 paesi del mondo.

Italiani popolo di volontari e cooperanti internazionali. Da poco meno di un anno, ha visto la luce un progetto che ha dà voce a loro, a chi dall’Italia è andato all’estero a vivere e ad essere portatore di pace.

I diari e le memorie degli italiani all’estero

Si chiama “Italiani all’estero, i diari raccontano”: «Ci sono le lettere di Catello Cesarano che racconta la rivolta degli studenti cinesi e i fatti di piazza Tienanmen, del 1989 e di Gaddo Flego, medico negli ospedali da campo durante il genocidio del Ruanda, e molte altre». A spiegarlo è Nicola Maranesi, curatore del progetto portato avanti per l’Archivio diaristico nazionale, realizzato con il contributo della Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

Si tratta dei diari, delle lettere e delle memorie che racchiudono storie di italiani “qualunque”, vissuti all’estero tra l’inizio dell’Ottocento e i giorni nostri, raccolte a partire dal 1984 dall’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano in provincia di Arezzo. «Ai lettori interessati, o anche solo curiosi, è possibile viaggiare attraverso i luoghi e le esperienze del loro servizio e della loro vita lontano dall’Italia».

Italiani all’estero, i diari raccontano: il progetto

Il progetto “Italiani all’estero, i diari raccontano” è questo: una selezione delle parti più significative delle testimonianze di vita di donne e uomini all’estero per scelta di vita, «un totale di 200 storie scelte tra più di mille – spiega Maranesi -. In questo modo ogni pagina si è trasformata in un racconto, per un totale di 1.000 racconti pubblicati al momento della messa online del sito».

I criteri seguiti per la scelta delle testimonianze hanno a che fare con l’interesse storico delle singole traiettorie umane raccontate nei documenti. Ma non solo: «Oltre all’interesse di presentare punti di vista diversi sui grandi avvenimenti storici, questo progetto si è posto l’obiettivo di raccontare il vissuto comune a tutte le esperienze migratorie e di cooperazione intenzionale che costituiscono il nucleo principale dei documenti».

Gli studenti e il volontariato internazionale

«Mia figlia è stata mandata allo sbaraglio». Sono state nei mesi scorsi le parole della madre di Silvia Romano che fanno luce su un mondo, quello della cooperazione internazionale, dove, a fianco alle organizzazioni non governative accreditate che investono molto nella formazione del proprio personale, operano una miriade di associazioni animate dall’ingenuo desiderio di “fare del bene”. Con il risultato di mandare decine di migliaia di ragazzi di buona volontà ma poco preparati in zone poco sicure per progetti la cui utilità è quantomeno dubbia.

Anche Alba Aceto, come Silvia Romano, è stata una giovane studentessa. Voleva vedere e cambiare in meglio il mondo, desiderava partire dalla sua Cosenza, dov’è nata nel 1983, e portare il suo impegno sociale e civile fuori dall’Italia. La sua destinazione per il servizio civile internazionale nel 2006 è l’Albania. E si porta dietro un diario, sia la prima che la seconda volta.

«Ritornando a Scutari dopo il primo viaggio, ciò che per me è diverso rispetto a due mesi fa, è il tipo di esperienza che mi riporta ancora una volta in questo posto che ormai mi appartiene e con le sue molteplici contraddizioni continua a suscitarmi emozioni. Il senso della mia presenza qui, tra dubbi e paure, è il voler conoscere sempre meglio questa città nella speranza che un giorno anche a Scutari ci saranno luce e acqua, che i giovani non dovranno più emigrare per la mancanza di prospettive di vita migliori».

La volontà di Alba di non arrendersi di fronte agli ostacoli incontrati, e di mettersi al servizio di progetti di cooperazione internazionale, ribadisce che «con estremo impegno, coerenza, costanza e pazienza, il significato profondo di una scelta consapevole di cittadinanza attiva come quella rappresentata dal servizio civile internazionale. È in tal modo che si individua la strada che porta al cambiamento».

Un pezzo di strada non asfaltata, in un universo che non é il tuo; ma che alla fine ti appartiene

Il volontariato internazionale è un’esperienza densa di emozioni e significati che molto spesso rappresenta l’acquisizione di una nuova coscienza sul mondo che ci circonda. Essere immersi per un periodo in una nazione ed una cultura completamente diverse dalle nostre, spesso in condizioni disagiate e di emergenza umanitaria, costituisce non solo un grande atto di solidarietà ma anche un prezioso contributo alla crescita personale dell’individuo.

Venticinque anni e gli studi di scienze politiche a Milano alle spalle. Il desiderio di essere operatore di pace. È Pasqua del 1988 quando, a distanza di alcuni mesi dal suo arrivo in Africa, impegnato in una missione di cooperazione allo sviluppo per i suoi 24 mesi di servizio civile svolto in alternativa al servizio militare, Paolo Cereda traccia in una lettera un bilancio della sua esperienza a Lusitu in Zambia.

«Cari amici, molto tempo (oppure poco) é passato da quando, carico d’entusiasmo, paura e minestre Knorr, sono sbarcato in Africa. Mi sentivo un libro bianco su cui scrivere un po’ di vita. In ascolto di tutto ciò che incontravo, vedevo, toccavo. Ora è tempo di scegliere, di prendere una posizione nei confronti della realtà in cui agisco e mi trovo. Europeo, bianco, italiano, giovane, con i propri limiti, con i propri ideali, paure, ansie, gioia e pianto. Certo si può sbagliare, essere fraintesi o interpretati alla luce di modelli culturali che non ci appartengono».

Sono tanti i volontari italiani che partono in missioni umanitarie all’estero con la volontà di coniugare l’attenzione dello sguardo sulle cose minute del mondo e delle genti incontrate, con il respiro ampio dell’analisi guidata da competenze e conoscenze solide studiate all’università, ma anche apprese sul campo. Un’esperienza formativa non priva di rischi, questa. Ma il rischio, quando ben gestito, forse, vale tutto. Perché cambia la vita di chi si incontra e la propria.

«Al di là di tutto, credo che l’esperienza di volontariato sia arricchente proprio per le relazioni umane che quotidianamente ti giochi con persone che stanno percorrendo un loro originale (e spesso violento) cammino di liberazione. E tu con loro: per un pezzo di strada non asfaltata, in un universo che non é il tuo; ma che alla fine ti appartiene».

Volontariato e cooperazione internazionale: il senso di una scelta

«La somma delle storie raccontate nel progetto Italiani all’estero, i diari raccontano, dona a chi visita queste pagine la suggestione della scoperta. I materiali divulgati possono essere fruiti per studio o per puro interesse. Oppure utilizzati a scopo didattico, per completare l’insegnamento di discipline storiche e sociali», spiega ancora Nicola Maranesi.

Una delle storie che hanno tanto da insegnare è quella di Fabrizio Bettini di Rovereto che ha 28 anni quando arriva a Pjatigorsk, in Russia, ai confini con la Cecenia. È il 2001 e da due anni il territorio è attraversato per la seconda volta in meno di un decennio dalla guerra. «Già da qualche giorno siamo a Vladikavkaz ed è troppo presto per dire quello che riusciremo a fare ma, dopotutto, si può considerare un risultato esserci. Qui, dopo il tg della sera, un programma attira la mia attenzione. Si vedono i soldati russi, si raccontano le loro storie, si vedono i funerali degli “eroi”, il cadavere di un capo ceceno. Nulla di speciale anche per voi che vivete in Italia, la guerra, quella in Afganistan o altre sono ospiti fisse anche nelle belle case europee. Qui a Vladikavkaz ad uno sguardo distratto la vita appare normale, ma se si guarda la cartina di questa parte di mondo ci si accorge che ci troviamo fra due fuochi, da una parte l’Inguscetia e la Cecenia e dall’altra parte la Georgia e l’Abkazia dove da qualche settimana sono ricominciate le ostilità».

Fabrizio è operativo con la missione “Operazione Colomba”, un corpo civile di pace e nonviolento di ispirazione cattolica. Al loro arrivo, come spiega Fabrizio, i volontari faticano capire come rendersi utili alla popolazione.

«Tre anni fa ho fatto una scelta chiara, di fede in Dio e all’idea che i civili al fianco di altri civili, vittime della guerra, potessero essere una controffensiva all’odio che dilaga. Ho scelto le vittime delle guerre e in un certo senso, dalla scelta di obiezione in poi, sono stato scelto».

Al termine del servizio è tempo di fare le valigie. E bilanci

Ogni viaggio, ogni esperienza di servizio civile internazionale o di cooperazione è un investimento per la vita. Per questo, neppure i più esperti partono mai da soli ma sempre con delle ONG (Organizzazioni Non Governative) e ciascuno ha sempre sul luogo dove è destinato, un referente che lo ha in custodia per tutta la durata della missione.

La missione di Annapia Sogliani, infermiera volontaria in Madagascar tra il 2001 e il 2002 è durata otto mesi. Al termine è tempo di fare le valigie. E bilanci.

«Tra poco sarò di nuovo in Italia. Avrò una grandissima nostalgia e non so cosa farò al mio rientro. Il Madagascar però mi ha insegnato molto ed ho imparato ad aver più fiducia nella vita e a vivere un po’ di più giorno per giorno. In questi giorni ho salutato tutte le persone che ho conosciuto e che mi hanno voluto bene. Un ragazzo del corso d’italiano con cui avevo fatto amicizia subito quando sono arrivata a Mahajanga, Angélo, ha fatto per me una collana di perline con un ciondolino raffigurante la Madonnina col bambino Gesù ed ha cercato di scrivere un biglietto in italiano».

Partire. Partire è un po’ come morire, perché ci si lascia dietro una versione di sé e si riaperte con una nuova, arricchita dello spirito di servizio e dell’incontro con l’Altro.

«Sarei dovuta partire oggi per la capitale ma l’aereo (unico mezzo di collegamento perché le strade nazionali restano inutilizzabili) ci sarà solo domani così sono felicissima di aver rimandato anche solo di un giorno. Anche oggi dormirò nel mio letto con la zanzariera».

Fare cooperazione internazionale oggi

Queste le esperienze di italiani che negli anni hanno intrecciato il servizio verso il prossimo con la loro volontà di compiere questi gesti di solidarietà all’estero. Partire oggi, dopo il “caso Silvia Romano”, genera negli italiani sentimenti e sensazioni di paura?

La risposta la fornisce puntuale Gianfranco Cattai, presidente FOCSIV, che respinge l’immagine di ragazze e ragazzi che partono, solo come idealisti o sprovveduti: «Nel mondo della cooperazione internazionale ci sono giovani determinati e motivati, che si avvicinano a questo mondo per una scelta che è solida e matura». Giovani che non si erano spaventati dopo il rapimento di Silvia Romano: «Anzi, sono arrivate molte disponibilità. In questo momento ce ne sono 400 in servizio civile internazionale che avrebbero dovuto partire ma sono bloccati per le norme dei vari decreti per contenere la pandemia da coronavirus».


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