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#StopArmiEgitto, la mobilitazione per fermare l’invio di armi italiane ad al-Sisi

La stampa ha svelato una maxi commessa di armi per l'Egitto, già definita "la commessa del secolo". «Un impegno di questo tipo vincola i due governi a rapporti durati negli anni futuri», sottolineano le associazioni, «è una decisione che influisce direttamente sulla politica estera e di difesa dell'Italia ed è per questo che non può essere considerata come “ordinaria amministrazione”. Deve essere discussa in Parlamento»

di Redazione

Rete Italiana per il Disarmo – Rete della Pace – Amnesty International chiedono al Governo di bloccare qualsiasi ipotesi di nuove forniture militari all’Egitto di al-Sisi. E a deputati e senatori chiedono di pretendere un dibattito aperto e chiaro in Parlamento sull’ipotesi di “contratto armato”. Per questo lanciano una mobilitazione sui social network usando l’hashtag #StopArmiEgitto.

Nei giorni scorsi, fonti di stampa internazionale e nazionale hanno riportato la notizia di trattative tra Roma e Il Cairo riguardo ad un “maxi-contratto”, definito «la commessa del secolo». Si tratterebbe di due fregate multiruolo Fremm costruite per la marina miliare italiana ed ora destinate all’Egitto (la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi, del valore di 1,2 miliardi di euro), cui si aggiungerebbero altre quattro fregate, 20 pattugliatori (che potrebbero essere costruiti nei cantieri egiziani), 24 caccia multiruolo Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M346. Sempre secondo quanto riportato dalla stampa italiana ed estera, l’esportazione delle due fregate sarebbe già stata autorizzata dal governo.

Perché questa commessa militare deve essere discussa in Parlamento? Secondo Rete Italiana per il Disarmo – Rete della Pace – Amnesty International, per almeno due motivi: si tratterebbe del maggiore contratto mai rilasciato dall’Italia dal dopoguerra e renderebbe l’Egitto il principale acquirente di sistemi militari italiani. «Un impegno di questo tipo vincola i due governi a rapporti durati negli anni che andranno a condizionare anche futuri governi italiani, diversi dall’attuale», sottolineano le associazioni. Pertanto «questa è una decisione che influisce direttamente sulla politica estera e di difesa dell'Italia ed è per questo che non può essere considerata come “ordinaria amministrazione”. La scelta di un impegno di questo tipo con un governo estero deve essere discussa in Parlamento e non può essere lasciata a mera competenza dell'Autorità nazionale UAMA – Unità per le autorizzazioni dei materiali d'armamento».

Inoltre, l’Egitto non è un Paese qualunque: «va considerato il ruolo che l'Egitto sta esercitando nel conflitto in Libia. L’Egitto è il principale sostenitore del generale Haftar, che guida l'autoproclamato “Consiglio nazionale di transizione libico” che da anni è in conflitto col governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli, che l’Italia sostiene. Esportare armamenti all'Egitto significa, di fatto, fornire sistemi militari ad un paese che non solo non condivide, ma anzi avversa apertamente l'azione dell'Italia e della comunità internazionale per un processo di pacificazione in Libia. In base a quanto riportato dalla fonte esterna, l’Egitto viola probabilmente l’embargo sugli armamenti verso la Libia stabilito dalle Nazioni Unite, embargo che dovrebbe essere implementato e controllato dalla missione navale IRINI di cui l'Italia ha fortemente richiesto la guida», concludono gli esponenti della società civile.

Per sostenere la richiesta di una discussione in Parlamento della commessa e partecipare alla mobilitazione #StopArmiEgitto, si può girare un video di 30 secondi, esplicitando il proprio dissenso alla vendita di armi all’Egitto e il sostegno alle richieste di Amnesty International, Rete della Pace, Rete Italiana per il Disarmo (il video va chiuso dicendo “#StopArmiEgitto”); si può scattare una foto con le grafiche della campagna, ancora una volta usando l’hashtag #StopArmiEgitto per collegarsi all’azione congiunta; si può diffondere il materiale informativo sulla situazione dei diritti umani e sul commercio di armi italiane in Egitto creato per questa mobilitazione, disponibile sui siti e gli account di Amnesty International, Rete della Pace, Rete Italiana per il Disarmo.

«In Egitto, a seguito del colpo di Stato promosso dal generale Abdel Fattah al Sisi, le autorità hanno fatto ricorso a una serie di misure repressive contro i manifestanti e i dissidenti, tra cui sparizioni forzate, arresti di massa, torture e altri maltrattamenti, uso eccessivo della forza e gravi misure di limitazione della libertà di movimento. Nel corso degli ultimi mesi le forze di sicurezza hanno arrestato e detenuto arbitrariamente almeno 20 giornalisti per aver espresso pacificamente le loro opinioni. Le autorità hanno continuato a limitare gravemente la libertà di associazione delle organizzazioni per i diritti umani e dei partiti politici. L'ampio ricorso a tribunali eccezionali ha portato a processi gravemente ingiusti e, in alcuni casi, a condanne a morte. La tortura è diffusa nei luoghi di detenzione formali e informali e le condizioni di detenzione sono disastrose. Dozzine di lavoratori e sindacalisti vengono arbitrariamente arrestati e processati per aver esercitato il loro diritto di sciopero e manifestazione», ricordano le associazioni. «La situazione è stata ripetutamente denunciata dalle associazioni per i diritti umani e da diverse risoluzioni del Parlamento europeo (cfr. Risoluzione 13 dicembre 2018 e Risoluzione 24 ottobre 2019). La legge n. 185 del 1990 prevede espressamente il divieto ad esportare armamenti e sistemi militari “verso i paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell'Unione europea o del Consiglio d'Europa”. Le autorità egiziane non solo non hanno mai contribuito a fare chiarezza sul barbaro omicidio di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso in Egitto, ma hanno ripetutamente fornito ai magistrati italiani informazioni insufficienti o parziali. E l’Italia continua a chiedere il rilascio di Patrick Zaki, attivista, ricercatore egiziano di 27 anni e studente dell’Università di Bologna, che si trova dal 7 febbraio 2020 in detenzione preventiva fino a data da destinarsi, rischiando fino a 25 anni di carcere per dieci post di un account Facebook che la sua difesa considera ‘falso’, ma che ha consentito alla magistratura egiziana di formulare pesanti accuse di “incitamento alla protesta” e “istigazione a crimini terroristici”».

In base alla “Posizione Comune 2008/944/PESC” del Consiglio europeo se l'Italia, non autorizzasse l'esportazione prevista all'Egitto, ha l'effettiva possibilità di bloccarla anche per tutti i Paesi dell'Unione europea.

All’obiezione che si perderebbe un contratto rilevante per la nostra industria militare, per mantenere e creare nuovi posti di lavoro, ancora più necessario vista la crisi economica a seguito della pandemia da Covid-19, Rete Italiana per il Disarmo – Rete della Pace – Amnesty International rispondono che «proprio la pandemia da Covid-19 ha evidenziato che l’Italia possiede un'industria militare in grado di produrre tutti i sistemi militari necessari per fare una guerra, ma è gravemente insufficiente nella produzione di materiali militari di basso costo (mascherine, camici, kit medici), in particolare di apparecchiature medico-sanitarie. Pensare di continuare in questo modo, incentivando la produzione militare che per due terzi è diretta al di fuori dei paesi alleati e, soprattutto, nelle zone di maggior tensione e conflitto nel mondo, significa voler continuare a sostenere un settore che non solo mette a repentaglio la sicurezza e la pace internazionale, ma distoglie risorse e fondi ad ambiti, come quello sanitario, in cui l'Italia è carente e dipendente dall’estero. Molti studi dimostrano come un investimento nel settore militare ha ritorni finanziari e di posti di lavoro molto più bassi di quanto si potrebbe ottenere con investimenti in altri settori produttivi, come ad esempio le energie rinnovabili, l'istruzione, la salvaguardia dell'ambiente, il welfare che, oltretutto, non hanno caratteristiche controproducenti come le armi, sia in termini politici che di sostegno a conflitti armati distruttivi e criminali. Per questo le nostre associazioni chiedono una profonda revisione dell'industria militare nella direzione della riconversione a fini civili di quella sua parte ormai obsoleta e di una razionalizzazione programmatica dei settori industriali militari nel contesto di un rinnovato e diverso Piano di difesa europeo».


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