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Sud, welfare culturale e corpi in trasformazione. Una mappa

Il mio augurio è che ‘Vita a sud’ diventi uno strumento per aiutare le sintesi di questi percorsi, cortocircuitando, facendo saltare le vecchie cartografie, non per raccontare la nostra dispersione, ma per divenire sistema linfatico per il corpo intero. Uno strumento di disintossicazione, ma anche di rigenerazione

di Emmanuele Curti

Nell’accingermi a scrivere queste righe, a raccontare nuovi modelli di welfare e rigenerazione culturale al Sud, mi continua a rimbalzare in testa il titolo dell’intervista, pubblicata su questa rivista , al ministro Peppe Provenzano: “Al Sud oggi non serve più Stato, serve più società civile”. Provo schemi di narrazione, di tessitura di esperienze, ma nulla, sento che c’è qualcosa che mi blocca, riportandomi sempre lì, a questa contrapposizione, Stato (maiuscolo, parola al maschile), società (minuscola, parola al femminile).


Sarà anche che contemporaneamente stia leggendo il bel libro di Jennifer Guerra, Il corpo elettrico, sull’autocoscienza dei corpo femminile, e il denso articolo di Carola Carazzone sulla mascolinità tossica (‘Solo la cultura con il suo soft power può svolgere il ruolo di promotore di alternative alla cultura dominante della mascolinità tossica e, allo stesso tempo, di addentellato permanentemente contro i rigurgiti o, peggio, le involuzioni che i cambiamenti di paradigma sempre comportano’), che, seppur con prospettive diverse, si occupano fondamentalmente di un ripensamento radicale delle strutture mentali e fisiche che ci condizionano, del/i corpo/i che siamo. Ed è appunto il corpo – e qui quello meridionale, nel suo essere distinto ma anche parte
essenziale ed energetica di quello del paese – di cui vorrei parlare, e della sue eventuale cura.

Sono cresciuto, anche per deformazione professionale – da archeologo, che ero, mi occupavo dei percorsi di autodefinizione delle società antiche -, a voler credere che in teoria fra società e struttura politica non dovrebbero esserci contrapposizioni: lo stato dovrebbe quindi essere espressione naturale del suo corpo, della società. Mi convinco sempre più che Il problema stia essenzialmente lì, quasi esistesse un corpo ‘tossicamente’ maschile distinto schizofrenicamente dalla componente generatrice femminile della società.

Parlare qui di welfare culturale deve quindi saper partire da questa presa d’atto; risolvere la tossica opposizione, curare il corpo, ripensarlo. E farlo partendo da una prospettiva meridionale, potrebbe essere ancora più complesso, nella incancrenita anche lì opposizione di un Sud versus resto d’Italia, che si porta appresso un dibattito
che da Salvemini e Gramsci non si è più interrotto, anche se in qualche modo affievolito – dopo Franco Cassano, quasi scomparso dagli orizzonti, ci è venuto a mancare il cruciale pensiero di Guglielmo Minervini che, in particolare con il suo libro, La politica generativa , aveva stabilito piattaforme di pensiero cruciale per ripartire (e, come sempre accade, cito una ‘bibliografia’ al maschile, segno anch’essa di una crisi di
pensiero e di una retorica identitaria sempre patriarcale).

Abbiamo quindi bisogno di una scossa profonda, mai necessaria come ora: la pandemia non ha fatto altro che far esplodere ancor di più le contraddizioni che ci portavamo appresso, in questa stanca incapacità di uscire dalle dimensioni del ‘900, profondamente intaccate e prossime a trasformarsi in macerie. Lo stato moderno, che avevamo confezionato nei due secoli scorsi, misura il suo finale fallimento proprio in questa presa d’atto di distacco dalla società che lo nutre: da un’era costruita sulla riscoperta del modello greco/romano (e parimenti le invenzioni dei musei e delle forme del sapere delle accademie, dei nuovo curricula scolastici), sull’invenzione della città industriale e dell’urbanistica su di lei tarata, sulla indispensabile esplosione nel secolo scorso della dimensione di cittadinanza modulata sul giusto diritto al lavoro e contemporaneamente su di una formazione che ti incasellava secondo le professione che andavi a svolgere… ecco, questo mondo sta scomparendo.

Scompare sul concetto di lavoro, più dinamico, meno legato a percorsi di professioni peraltro in via
d’estinzione
, e di conseguenza anche più tragicamente precario. Questo ci obbliga ad esempio, a chiederci, in nome di quel famoso Stato, se siamo ancora una Repubblica fondata sul lavoro e se quella categoria è ancora rappresentativa di un concetto di cittadinanza. Scompare sulla formazione scolastica, cruciale nella crescita collettiva del dopo guerra, che ti educava per inserirti in quel mondo del lavoro. Lo schema, costruito su una triade di relazione (libro/manuale-docente-comunità di coetanei e famiglia) però non esiste più, perché l’accesso al sapere, attraverso internet, ha fatto saltare i meccanismi di relazione. In questi mesi di pandemia soffriamo infatti di una finta contrapposizione, nella diatriba fra “chiusi in classe” e “didattica a distanza”, dove il problema reale è il corpo infante e adolescente della nostra società, che soffre più che altro per impossibilità di relazione fisica e che potrebbe riscoprire una propria dimensione di contatto attingendo a nuove forme di presenze sul territorio.
Scompare sulle opposizioni del passato, con quella più evidente, a mio parere, generata dal caso
emblematico di Taranto, dove il dibattito è ancora sulla ‘scelta’ fra lavoro e salute
, secondo categorie novecentesche (lavoro/welfare classico), mentre ci si dovrebbe occupare, con una visione lunga, del corpo della comunità, del suo vivere, non del sopravvivere in precario equilibrio fra due poli.


Scompare, da ultimo, proprio su quella narrazione del Sud, nel liberarsi di un’identità statica – di cui si nutre la politica – che sulla questione meridionale, sulle casse del mezzogiorno, sull’emigrazione, ancora costruisce la sua retorica. Abbiamo bisogno di ripartire anche qui da un’accettazione di uno stato (teniamolo minuscolo) che sappia essere laboratorio collettivo di autodefinizione, partendo dalla necessaria consapevolezza delle differenze: dovremmo proprio lavorare su queste supposte contraddizioni non come colpa (nel caso del Sud), ma come elemento conflittuale di cura delle membra e quindi del corpo totale. La povertà/arretratezza, quella ‘storica’ che nel dibattito Pasolini/Fofi contrapponeva l’alienazione del mondo contadino alla necessità della sopravvivenza, non è più elemento descrittivo (e mi dispiace, neanche di ‘resilienza’), ma deve essere eventualmente cicatrice da cui ripartire.

Ecco, in questa prospettiva, nutrita peraltro da molte altre opposizioni, la cultura torna ad essere elemento indispensabile per ridefinirci. Non la cultura che apre i musei del racconto del passato (in tutte le sue forme artistiche), o ‘descrive’ quello status, ma la cultura come strumento di welfare, di benessere, di azione sulla visione di futuro. Un welfare culturale che in particolare in questa pandemia post novecentesca, si ponga come elemento necessario di saldatura della comunità.
Nel superare quelle contraddizioni, abbiamo bisogno di strumenti importanti di pensiero che abbiano una presenza fisica sul territorio, a connettere le fragilità, a nutrirle, a far loro prendere consapevolezza di una nuova parabola – il termine ‘parola’ da lì ha origine, nel suo essere codice ma anche traiettoria lunga di visione. Il tutto partendo da una nuova consapevolezza, peraltro resasi evidente proprio in questi mesi, grazie anche alle riflessioni di Paolo Venturi : l’azione del terzo settore diventa cruciale nel momento in cui scatta la consapevolezza che la sua azione è culturale, così come quella di ogni impresa culturale si riconosca come fondamentalmente sociale.La città industriale otto/novecentesca non c’è più: è frammentata, non più divisa fra zone del vivere, zone del lavoro, zone della formazione del sapere: è qui che l’hardware/software culturale diventa cucitura, linea di crescenza (per citare un ‘classico’ per noi di Ilda Curti), nell’essere luoghi di laboratori collettivi.

Dobbiamo rilanciare una cultura dello spazio pubblico, con un corpo che abbia cuori pulsanti sparsi, non centripeti – la piazza con le periferie lontane. Dovremmo tornare ad essere quei migranti – e qui lasciatemi un tocco di retorica del passato – che sbarcarono sulle coste del Sud 2700 anni orsono e che qui (non in Grecia) disegnarono il senso della polis, inventando il concetto di spazio pubblico. Dobbiamo saperlo fare nelle città, nei territori, nella aree più lontane e disagiate.

Lo Stato, quello tossico patriarcale del ‘900, va ripensato, in nome di una società che sappia definirsi in altro modo, partendo da una nuova cultura dell’amministrarsi lontano dalle vecchie burocrazie, rieducandoci, a partire dagli ‘amministratori’ a dismettere l’abitudine di approntare schizzi quotidiani su vecchie traiettorie, educandoci a immaginare paesaggi ed orizzonti in un respiro lungo che ogni radicale trasformazione comporta.
È qui che il paradigma del corpo femminile versus maschilismo tossico diventa cruciale perché già agisce come elemento di cura visionario, intaccando le membra sfibrate dello Stato: non è un caso che molte delle realtà innovative culturali e sociali oggi in Sud Italia parlino al femminile (e qui cito alcune delle esperienze più forti, dal mondo del teatro a nuovi interpretazioni ‘museali’, dalla rigenerazione culturale alla trasformazione ‘sociale’ del turismo, ecc. – La luna al guinzaglio, Blam, Mare Memoria Viva, Clessidra teatro, L’Albero, Cozinha nomade, C-Fara, ZicZic , Swapmuseum, Mappina, La Rivoluzione delle Seppie , Destination Makers ). Queste realtà stanno costruendo una nuova grammatica di presenza, generano nuovi codici di relazione, divengono automaticamente ‘bibliografia’ (al femminile) del contemporaneo. E ci disintossicano.

La cultura è quindi strumento di welfare proprio grazie a queste azioni, pervadenti, generatrici, per le quali sempre più è necessario capirne la portata in termini di impatto sociale. E qui vorrei citare anche altre esperienze in fieri, ancora in forma di laboratorio collettivo di riflessione, come Cultura é sociale – curato da Cristina Alga, Ilaria Vitellio, Vincenzo Porzio e Ciccio Mannino – che sta costruendo una piattaforma di riferimento per ‘connettere’ mondi ormai coincidenti, quello dell’impresa culturale e sociale. Oppure Controra, che nasce più dal tentativo di declinare un nuovo vocabolario politico di azione, raccogliendo anche lì voci dal Sud, aiutati nel percorso da Roberto Covolo e Davide Agazzi, fautori peraltro di un bellissimo nuovo laboratorio politico/sociale fra Brindisi e San Vito dei Normanni. E ancora con Lo Stato dei luoghi , rete nazionale di centri di rigenerazione culturale, con una forte presenza anche nel Sud Italia. Mi piacerebbe citare anche Matera 2019, se riuscisse a staccarsi dalle forme del ‘900 e divenire un processo di ‘fondazione di comunità’, costruito sulle belle pratiche frettolosamente – anche per colpa della consueta politica – condensate nell’anno 2019.

Il mio augurio è che ‘Vita a sud’ diventi uno strumento per aiutare le sintesi di questi percorsi, cortocircuitando, facendo saltare le vecchie cartografie, non per raccontare la nostra dispersione, ma per divenire sistema linfatico per il corpo intero. Uno strumento di disintossicazione, ma anche di rigenerazione, per costruire una nuova parabola (con declinazione al femminile) del nostro stato, trasformandolo in una parola di movimento.

*Archeologo e manager culturale


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