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Economia & Impresa sociale 

Per cambiare l’economia non basta l’etica della testimonianza

«Terzo settore e filantropia possono essere palliativi», ha detto il Papa chiudendo Economy of Francesco. Una affermazione che ha aperto il dibattito. L'intervento del segretario generale di Fondazione Italia Sociale: «Dire che queste organizzazioni sono palliativi, che rischiano di essere funzionali al sistema che intendono mettere in discussione, sembra riflettere la visione datata di un tempo in cui il Terzo settore coincideva con assistenzialismo e la filantropia con beneficienza dei più ricchi. Ma parecchia acqua è passata sotto i ponti»

di Gianluca Salvatori

Il dubbio alla fine resta. Qual è l’economia di Francesco? I valori e i principi che esprime come si traducono in soggetti e strumenti? Che forme organizzative prende e che assetti istituzionali richiede? Come si pone concretamente rispetto ai modelli economici prevalenti e su cosa fonda la sua capacità di porsi come alternativa, reale e non solo desiderata? Perché l’economia non è fatta per fermarsi alle esortazioni ma richiede l’individuazione di meccanismi e misure. Le teorie a confronto non sono confinate nella sfera degli studi ma producono effetti nella vita delle persone, delle organizzazioni, degli Stati. Hanno vita nella realtà. Perciò se non si condivide il pensiero economico oggi dominante – da cui dipendono scelte politiche e orientamenti aziendali, istituzioni e agenzie che regolamentano scambi e comportamenti delle imprese, curricula universitari e regole amministrative – non sono sufficienti affermazioni di principio ma serve indicare soluzioni e costruire opzioni concrete che possano prenderne il posto.

Se all’incontro di Assisi, convocato sul tema dell’”economia di Francesco”, hanno partecipato in 2mila, per lo più giovani economisti, è proprio perché c’è un’aspettativa reale. Di luoghi e occasioni non per parlare di ciò che non va, argomento ripetuto fino alla nausea (anche se non altrettanto indagato), ma per tracciare vie da seguire per promuovere il cambiamento. Lasciando da parte l’insoddisfazione generica e, appunto, sporcandosi le mani nella ricerca e nell’attuazione non di singole azioni ma di modelli in grado di reindirizzare la vita economica su binari diversi. Per rimettere la persona al centro dell’economia passando dal piano delle istanze etiche a quello delle scelte operative, che significa dar vita a forme di impresa, modelli organizzativi, regimi contrattuali, modalità di gestione delle risorse, strumenti di transazione, e così via. Tutti pensati e disegnati per promuovere davvero e non solo per auspicare una economia diversa. Evitando che la distanza tra principi e realtà fattuale resti incolmabile. Come sta avvenendo, ad esempio, nel caso della discussione sull’economia delle piattaforme. Dove chi pensa di contrastare il monopolio di pochi giganti, sempre più potenti, attraverso la sperimentazione volontaristica di soluzioni locali o di nicchia, che sembrano ignorare come proprio la scala globale sia il fattore di successo che rende i gestori delle piattaforme dei monopolisti onnipotenti, si condanna di fatto ad un ruolo di testimonianza. Eppure, se non si vuole che si consolidino irreversibilmente le attuali posizioni di mercato, è altro quel che servirebbe per riportarle sotto controllo: leggi e accordi internazionali, politiche fiscali comuni e antitrust. In una parola: politica.

Una proposta per cambiare l’economia che si basi solo sull’etica della testimonianza, per contrastare il pensiero mainstream che in questi anni ha posto il profitto in cima alla scala delle priorità, non ha grandi possibilità di successo. Magari scalda il cuore, ma non incide. Lo sanno bene le imprese sociali e le cooperative, che a centinaia di migliaia in tutto il mondo (certo con risultati alterni e non senza fragilità sulle quali è bene non sorvolare, ma non dimenticando neppure i molti ostacoli che hanno dovuto superare) cercano in concreto di mettere in pratica i valori di un’economia orientata al bene comune. E rappresentano una delle poche forme di impresa a diffusione mondiale che consente sul serio ai poveri di essere protagonisti del proprio destino.

L’economia sociale dimostra nei fatti la possibilità di un’alternativa ad un’economia finanziarizzata, anche quando questa compare nella sua versione più presentabile come finanza di impatto. Agendo in un numero crescente di ambiti economici di rilevanza sociale; creando occupazione stabile; rispondendo a bisogni vecchi e nuovi, altrimenti insoddisfatti; sviluppandosi anche in settori a basso margine di profitto perché guidata dalla priorità dell’interesse sociale e non della remunerazione del capitale.

L’articolato – e certamente perfettibile – sistema delle organizzazioni di economia sociale ha dovuto lottare per conquistarsi visibilità e riconoscimento. E ancora oggi non sempre viene accolto e compreso. Lo stiamo vedendo in questi giorni nelle difficoltà che si incontrano a far recepire l’economia sociale nei piani di ripresa post-Covid. Motivo per cui ci si sarebbe aspettati che, nel concludere l’incontro di Assisi, anche dalle parole di Papa Francesco venisse un segnale chiaro e forte a sostegno di queste esperienze. Invece, nell’intervento finale, le parole del Papa hanno riservato una critica severa al terzo settore alla filantropia, indicati come palliativi la cui opera, benché cruciale, non sempre li rende “capaci di affrontare strutturalmente gli attuali squilibri che colpiscono i più esclusi e, senza volerlo, perpetuano le ingiustizie che intendono contrastare”. Affermare che queste organizzazioni sono palliativi, che rischiano di essere funzionali al sistema che intendono mettere in discussione, sembra riflettere la visione datata di un tempo in cui il Terzo settore coincideva con assistenzialismo e la filantropia con beneficienza dei più ricchi. Ma parecchia acqua è passata sotto i ponti, ed oggi moltissime organizzazioni di Terzo settore sono attori che agiscono per il cambiamento economico e sociale, non stampelle a sostegno dei precari equilibri del passato. Lo stesso vale per la filantropia, che sta cambiando pelle e non può più essere scambiata con la sua versione ottocentesca.

Quella di Assisi è una presa di posizione che difetta di discernimento. Tanto più singolare in quanto proviene da un pontificato il cui magistero in innumerevoli occasioni ha dato prova di un’acuta capacità di analizzare la realtà presente e ha testimoniato con i fatti l’indiscutibile virtù di non fermarsi alle petizioni di principio. Quel passo nel discorso conclusivo disorienta. Perché, per biografia e formazione culturale, non è stato pronunciato da chi vagheggia un’autoriforma del capitalismo, magari tramite una dissoluzione delle distinzioni tra profit e non profit in nome di ibridazioni, concepite più che altro per favorire la riverniciatura di vecchie prassi economiche da rendere più presentabili. Tutto, nelle posizioni di Papa Francesco, indica un altro obiettivo. Ben più ambizioso. Ma, appunto, indicare l’obiettivo non basta perché si realizzi. Ma se si giudicano inservibili gli strumenti e le idee che con fatica si sono fatte strada, come alternative possibili all’economia che ha perso il senso della sua funzione sociale, in cosa consiste l’economia di Francesco? Come possiamo aspettarci che possa, davvero, produrre un cambiamento?


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