Solidarietà & Volontariato

Comunità cristiane e disabilità: una parrocchia a misura di ogni persona

La Diocesi di Milano rilancia in un convegno online il lavoro del tavolo “O tutti o nessuno”: «Nelle nostre comunità le persone con disabilità non si vedono. Non dobbiamo più pensare di fare cose “per loro”, dobbiamo parlare soltanto di “noi”, perché c’è solo un noi in cui ci siamo io, tu, l’altro… insieme», dice don Mauro Santoro

di Sara De Carli

È passato qualche anno, ma ricordo ancora bene l’emozione. Quando Rosina Giuseppetti, storica insegnante della Lega del Filo d’Oro oggi in pensione, mi disse che «se Dio si facesse conoscere solo dagli intelligenti, farebbe un grande torto. La ragione è importante, ma sicuramente il canale privilegiato da Dio è il cuore». Rosina accompagnava i bambini sordociechi e pluriminorati psicosensoriali nella preparazione ai sacramenti, ovviamente nei casi in cui le famiglie desideravano anche questo percorso per i propri figli.

Per le comunità cristiane riconoscere e coltivare la spiritualità delle persone con disabilità è una sfida ancora tutta da affrontare. La prospettiva non è tanto quella di avere un’attenzione specifica per i bambini e i ragazzi con disabilità nella catechesi in preparazione dei sacramenti (“la catechesi della disabilità”) ma quella di costruire delle comunità cristiane inclusive, che abbiano uno sguardo aperto a tutti, che mettano al centro la persona – qualunque persona – con tutte le sue caratteristiche. La Diocesi di Milano, che da alcuni anni ha attivato il tavolo “O tutti o nessuno”, per la sera dell’11 marzo propone su Zoom un appuntamento per riflettere su come devono cambiare oggi le nostre comunità per essere «a misura di ogni persona» (qui il link per iscriversi).

«Inutile negare che pur vivendo una stagione di maggior sensibilità e attenzione, generalmente le nostre comunità cristiane, a partire dalle chiese e dagli oratori, fanno fatica ad esser luoghi inclusivi», ammette don Mauro Santoro, da ottobre 2019 referente del tavolo diocesano. «Basta guardare la realtà, nelle nostre chiese le persone con disabilità non ci sono, pur essendo presenti sul territorio. O sono nascoste e non si fanno avanti oppure sono state cortesemente messe alla porta, capita anche questo. Spesso ci si muove ancora tra il “tanto non capisce” e il “tanto sono già angeli”, due estremi ugualmente riduttivi. La prospettiva invece è quella della persona. L’obiettivo non è semplicemente “fare qualcosa per loro” ma far sentire queste persone parte di una comunità e valorizzarli nel loro apporto alla comunità stessa, come portatori di un contributo».

L’urgenza del cambiamento di sguardo si è fatta ancora più forte dopo questo anno di pandemia. «Alla luce dell’anno trascorso avvertiamo forte la necessità che la ripartenza parta appunto dalle persone più fragili, da quelle che hanno pagato maggiormente. La grande provocazione che vorremmo lanciare alle comunità – a quelle cristiane in primis, ma non solo – è che in un certo senso abbiamo la “fortuna” di esserci fermati e di poter ripensare tutto. Cambiare una macchina in corsa è difficile, ma adesso che tante nostre progettualità sono state fermate, possiamo ricominciare una vita comunitaria diversa, che non sia solo il tornare come prima? Possiamo avere una capacità organizzativa diversa, tale per cui le proposte che facciamo siano fin dall’origine pensate come inclusive?», dice don Mauro.

È questo il punto: «Non dobbiamo più pensare che ci sia un “per loro”, perché questo lascia intender che ci siamo prima noi e poi dobbiamo aggiustare le attività perché vadano bene anche per loro. No. Dobbiamo parlare e pensare soltanto di “noi”, perché c’è solo un noi in cui ci siamo io, tu, l’altro… insieme. È questione di progettare fin dall’inizio in modo diverso, è un cambio di mentalità: tutte le attività, le iniziative, dalla catechesi dei bambini alle proposte per le famiglie a quelle per gli anziani devono essere pensate tenendo già dentro le persone fragili, fin dalla fase progettuale. La tendenza è pensare che rendere una proposta accessibile significhi renderla superficiale, ma non è così: la sostanza è figlia della semplicità», prosegue don Santoro. «È quello che Papa Francesco ci ha invitato a fare nel suo Messaggio in occasione della Giornata internazionale delle persone con disabilità dello scorso 3 dicembre, quando ha detto che l’inclusione dovrebbe essere la roccia sulla quale costruire i programmi e le iniziative delle istituzioni civili e religiose perché nessuno, specialmente chi è più in difficoltà, rimanga escluso. È una cosa molto concreta, è prenderci cura delle persone e farlo non in maniera estemporanea ma maturando uno sguardo diverso».

Questo sguardo è il motivo per cui l’approccio che la Diocesi ha scelto è quello della “comunità cristiana e disabilità”: «Non si tratta di occuparsi delle persone con disabilità per un determinato tratto di vita o alcuni ambiti, come la catechesi, ma di allargare ai vari bisogni di vita, al tempo libero, sport, alla qualità della vita, collaborando con gli uffici ordinari della Diocesi, senza essere un ufficio in più, e con un lavoro di rete sul territorio, insieme alle associazioni che si occupando di disabilità. La prospettiva è il progetto di vita». Un cammino anticipato nei mesi scorsi da "oraMIformo la disabilità è di chi guarda", un percorso formativo per gli educatori di oratorio. Se no restiamo sempre al discorso del “riadattare”. Alla logica del noi e del loro. Che invece va superata.

Alla serata dell'11 marzo parteciperanno anche il vescovo di Milano, mons. Mario Delpini e don Luigi D’Errico, parroco dei Santi Martiri dell’Uganda a Roma, da poso nominato commendatore dal Presidente della Repubblica, che parlerà di come nella sua comunità l’inclusione non costituisce un “di più” ma è diventata la normalità dell’essere parrocchia.


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