Cooperazione & Relazioni internazionali

L’incendio a Cox’Bazar: “Così ho trovato il corpo di mio figlio ridotto in cenere”

Shahid (il nome è di fantasia), è uno dei papà superstiti dell'incendio che il 22 marzo ha travolto il campo profughi in Bangladesh dove vivono circa 900 mila rifugiati Rohingya tra tende e giacigli. Moas, dal 2017 sul posto, ha incontrato alcune delle famiglie che oggi hanno perso tutto e provano a "rinascere" da quella stessa cenere

di Alessandro Puglia

«Eravamo in casa quando è scoppiato l’incendio, ho cercato di vestire i miei figli e siamo scappati. Le fiamme in pochi secondi hanno avvolto tutto. Mio figlio Kabir, 4 anni, era fuori a giocare, quando lo abbiamo ritrovato il suo corpo era ridotto in cenere» Shahid ha 33 anni, è il padre di Kabir (utilizziamo nomi di fantasia) ed è uno dei superstiti dell’incendio che il 23 marzo ha devastato il campo profughi di Cox’s Bazar in Bangladesh, tra i più grandi campi al mondo, dove vivono circa 900 mila rifugiati Rohingya. Un incendio che ha dato alle fiamme un’intera comunità, dove in totale hanno perso la vita circa 15 persone, 560 sono rimaste ferite, oltre 45 mila sono rimaste sfollate. Testimonianze che oggi riemergono da quell’inferno attraverso il lavoro di numerose associazioni umanitarie internazionali che operano sul posto, come Moas che dal 2017 è in prima linea favorendo progetti rivolti ai rifugiati Rohingya e alla comunità locale.

La storia di Shahid che nell’incendio ha perso il figlio di quattro anni è stata raccolta dagli operatori della Ong internazionale che ha sede a Malta e descrive un’altra parte del mondo, troppo lontana dai nostri occhi, ma più volte ricordata dalla comunità internazionale e da Papa Francesco.

«Purtroppo, anche altre famiglie di questo campo hanno vissuto questa terribile tragedia e hanno perso i loro figli in questo incendio. Noi abbiamo perso il nostro piccolo e tutti i nostri averi che negli anni avevamo racimolato. Ricostruire è al momento impossibile perché tutta la zona è ancora bollente e la terra coperta di cenere e macerie. Stiamo ricevendo aiuti da associazioni internazionali, volontari e organizzazioni umanitarie, che ci forniscono tende, pasti caldi, bastoni di bamboo, corde e quello che ci può servire per riergere le nostre capanne» è il drammatico raconto di Shahid.

Regina Catrambone, co-founder e direttrice di Moas racconta: «Il rischio di incendi è sempre alto a Cox’s Bazar. Oltre alle misure di prevenzione, è importante implementare modalità adeguate di risposta in caso di incendi. È evidente, data la disposizione e i materiali usati per la costruzione dei campi Rohingya, che anche con le misure di mitigazione attualmente in atto il pericolo di incendio rimane elevato e il sostegno a migliori risorse e competenze antincendio dovrebbe essere una priorità. MOAS sta cercando, attraverso il suo staff di consulenti tecnici in Bangladesh, di trovare soluzioni rapide ed efficaci per questo problema».

E aggiunge: «Non dobbiamo dimenticare il lato umano, il trauma provato da queste persone che in pochi istanti hanno di nuovo perso tutto, dopo aver vissuto la tragedia delle persecuzioni ed essere state costrette a fuggire dal loro Paese, il Myanmar, che da molti anni non riconosce la loro la cittadinanza».

Tra i superstiti c’è Mohammed, 50 anni, che a Cox's Bazar con la moglie e i cinque figli vive dall’agosto 2017, data del primo grande esodo di massa dal Myanmar

«In pochi minuti, il fuoco ha avvolto la nostra capanna, riducendo tutto in cenere. Il calore era insopportabile, e l’aria densa di fumo nero. Ho subito cercato di fuggire e di mettere in salvo la mia famiglia: alcuni di loro hanno riportato lievi ferite nella confusione della fuga, ma per fortuna stiamo tutti bene. Abbiamo perso tutti i nostri averi, le poche cose che costituivano il nostro mondo: vestiti, cibo, piatti, giacigli, coperte. Non sappiamo cosa abbia causato l’incendio, è difficile dirlo, ma ciò che sappiamo è che adesso non abbiamo più nulla. Questo incendio ci ha portato via tutto, ha ridotto in cenere la speranza» conclude Mohammed, da quel campo remoto ormai ridotto in cenere.


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