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Vent’anni dopo l’11 settembre: il dialogo contro la violenza

In questi 20 anni il terrorismo ha continuato a uccidere innocenti e le guerre hanno continuato a moltiplicarsi. Ci si interroga sempre di più sul senso stesso delle guerre e su quali strategie, invece, dovrebbero essere adottate per contrastare la violenza. Il contrasto al radicalismo religioso e il sentiero indicato da Papa Francesco e del Grande Imam dell’Università di Al Azhar Ahmad Altayyeb

di Asmae Dachan

Almeno tre generazioni si sono confrontate e si confrontano ancora oggi con i terribili attentati dell’11 settembre 2001, con un senso di sconcerto profondo. Era l’inizio di un nuovo millennio e nessuno poteva immaginare quella tragedia e il susseguirsi di drammatici eventi che hanno influenzato la storia da quel momento a oggi. Oltre duemila civili uccisi negli attentati alle Twin Towers di New York e altre migliaia uccisi poi nelle guerre che, dicevano, avrebbero dovuto sradicare per sempre il terrore e punire i mandanti della strage. Così non è stato; il terrorismo ha continuato a uccidere innocenti e le guerre hanno continuato a moltiplicarsi. Ci si interroga sempre di più sul senso stesso delle guerre e su quali strategie, invece, dovrebbero essere adottate per contrastare la violenza, il crimine organizzato, il terrorismo e il fondamentalismo. Come disse il compianto Gino Strada, “L’unica verità sulle guerre sono le vittime”. Se è vero, infatti, che le guerre generano solo nuove violenze, perdita di vite umane, devastazione, fughe di massa e instabilità politica ed economica, è altrettanto vero che la società civile, a livello internazionale, non si è mai davvero arresa alla logica dell’odio. Molti ricorderanno il fiume umano che ha riempito, con tre milioni di persone, le strade di Roma e di altre città del mondo il 15 febbraio 2003, per dire no all’invasione dell’Iraq. Ciò nonostante, l’invasione c’è stata e ancora oggi nella Terra dei due fiumi si piangono migliaia di vittime innocenti e la situazione non è stabile, né pacificata.

Il pacifismo colpito al cuore

L’11 settembre ha segnato una data che ha cambiato il corso degli eventi, gettando l’umanità nell’angoscia, nella paura, nell’insicurezza. Forse il clamore di quelle azioni vili, trasmesse in diretta in mondovisione, ha fatto sì che la data stessa diventasse il simbolo di quelle stragi. È stato come se con il crollo delle torri fossero crollati anche molti ponti, costruiti in anni di dialogo interreligioso e interculturale, come se, nel momento della sepoltura di quelle vittime innocenti venissero sepolte anche la speranza e la fiducia nel diverso. Il rapporto con il mondo arabo-musulmano è inesorabilmente cambiato e anziché scegliere di unirsi tra civili per contrastare il radicalismo e il terrorismo di matrice religiosa islamista, si è deciso di puntare il dito contro il mondo musulmano in toto. Per certi versi è comprensibile la sfiducia verso una realtà, quella dei Paesi islamici, difficile da comprendere e interpretare. Spesso, a causa di esponenti religiosi in malafede, che anziché predicare dovrebbero fare altro nella vita e a causa di classi politiche corrotte che strizzano l’occhio al fanatismo, si tende a fare di tutta l’erba un fascio. Oriente e Occidente hanno preso a guardarsi con la lente del sospetto, della paura e della sfiducia e gli opposti estremismi non hanno fatto altro che alimentare il fuoco dell’odio e della sfiducia. Una parte del mondo ha cominciato a pensare che islam e terrorismo siano sinonimi, mentre un’altra parte, in particolare il popolo pacifista che nel 2003 era sceso in piazza, ha perso la fiducia nella politica, ma anche nel potere del movimento pacifista stesso.

Individuare e contrastare il radicalismo

Di fronte a questo scenario, c’è chi non si è mai arreso e non ha mai accettato di assumere un atteggiamento catastrofista, lavorando dal basso per ricostruire ponti e ridare vita a iniziative di incontro, di dialogo, di amicizia tra popoli, nelle scuole, a livello accademico, negli ambienti del volontariato e dell’attivismo. Anche per contrastare il radicalismo religioso e le ideologie che sostengono il terrorismo vengono promosse iniziative su più piani. A Beirut, ad esempio, due giovani sorelle, che di professione sono assistenti sociali forensi, hanno dato vita a un progetto contro la radicalizzazione, rivolto ai detenuti del carcere di Roumieh. Molti dei detenuti hanno la loro età e l’intento è quello di aiutarli a uscire dal tunnel della violenza e tornare a guardare alla vita con uno sguardo di fiducia. Lo stesso accade in Kosovo, uno dei pochi Paesi al mondo che ha accettato di far rientrare in Patria alcune donne, insieme ai loro figli, che erano partite per unirsi allo Stato Islamico in Siria. In molti Paesi arabi (almeno sulla carta), le pene contro chi si macchia di terrorismo sono state inasprite.

In Italia, oltre ad alti livelli di sorveglianza, sono state avviate iniziative nelle carceri, considerati luoghi sensibili e ad alto rischio di radicalizzazione. Da un lato ci sono progetti per formare gli agenti, in modo che acquisiscano strumenti per individuare soggetti radicalizzati e potenzialmente pericolosi, dall’altro ci sono percorsi per de-radicalizzare quella parte di popolazione carceraria attraverso colloqui con ministri di culto che hanno seguito corsi di formazione specifici, approvati dal Ministero degli Interni. Il 19 luglio 2017 la Camera ha approvato il disegno di legge sulle “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell'estremismo jihadista” e anche a livello europeo e internazionale sono state adottate molte iniziative per cercare di prevenire e contrastare l’influenza dei predicatori dell’odio, che spesso arrivano alle nuove generazioni attraverso la rete. All’interno dello stesso mondo musulmano internazionale, che, va ricordato, non può essere considerato un blocco monolitico, ma va considerato in tutte le sue anime e sfumature, l’11 settembre ha segnato un punto di non ritorno. C’è chi ha deciso di rafforzare il suo fanatismo pseudo religioso e chi, invece, stanco di vedere il nome, i simboli, lo spirito stesso dell’islam trasfigurato in funzione di un odio smisurato in nome di un dio che direbbe di uccidere le sue stesse creature, ha voluto segnare il passo, prendere le distanze e prendere un impegno per scrivere una nuova stagione di confronto e cammino condiviso.

La spinta di Papa Francesco e dell’imam di Al Azhar

Va in questa direzione la svolta storica avviata dall’iniziativa di Papa Francesco e del Grande Imam dell’Università di Al Azhar Ahmad Altayyeb, che il 4 febbraio 2019 hanno firmato ad Abu Dhabi il “Documento sulla Fratellanza umana”, quasi una nuova versione di Francesco e il Sultano. La firma del documento, seguita dall’Enciclica del 3 ottobre 2020 “Fratelli tutti”, è il frutto di una volontà precisa, di un impegno che chiama al coinvolgimento di un più ampio bacino possibile di persone, che mettano in pratica quelli che sono i contenuti della dichiarazione. La bellezza di queste iniziative sta nel fatto che si rivolgono non solo ai credenti, ma a tutti coloro che hanno a cuore il destino dell’umanità, che sono attenti alla giustizia sociale, ai diritti umani, all’amicizia tra popoli e alla costruzione di una pace reale per tutti. Nell’anno che verrà ricordato come quello della pandemia, in cui l’umanità si è scoperta fragile e vulnerabile e in cui si è avuta la dimostrazione concreta che nessun muro e nessuna barriera possono realmente separare i destini dei popoli, l’iniziativa del Pontefice ha indicato un sentiero da percorrere tutti insieme. È in quel “tutti”, infatti, che si racchiude la forza propositiva di un’iniziativa che punta a includere e non a dividere, ad aprire porte e creare ponti che possano far incontrare le donne e gli uomini di ogni dove, includendo non solo le diverse anime del cristianesimo, ma tendendo una mano alle altre confessioni e anche al mondo laico. A completare simbolicamente questo cerchio, che ha riunito credenti di fedi diverse, c’è stato il viaggio del Papa nel martoriato Iraq e il suo incontro con l’Ayatollah sciita Al-Sistani a Najaf, che si è concluso l’8 marzo scorso. Cristiani e musulmani, musulmani sunniti e sciiti, credenti e non credenti. La forza dell’iniziativa “Fratelli tutti” sta proprio nella spinta all’inclusività, al riconoscersi come umani, a impegnarsi insieme per proteggere la sacralità della vita umana. Dalla firma, quindi dalla teoria, alla pratica, quindi al vero rispetto dei diritti umani, la strada è ancora molto lunga. Sarebbe molto importante cominciare ad abolire sistemi come la kafala (che sotto il nome di tutela pone in condizione di inferiorità certe persone), garantire libertà di scelta e di culto, e sostituire la parola minoranza con cittadinanza.

Bramare la pace

In Italia, come in buona parte del mondo, i più anziani, quelli che rappresentano un patrimonio di esperienze e saggezza da cui attingere, raccontano la guerra che hanno combattuto, ma anche quello che la guerra provoca tra atrocità, sofferenza dei civili, distruzione. La generazione degli adulti e dei più giovani, di guerra, fortunatamente, ha solo sentito parlare, e questa lontananza di certo non aiuta ad avere una reale consapevolezza della drammaticità che vivono le persone colpite dalla guerra e dal terrorismo. Ci sono, invece, popoli che sono in guerra da decenni, con generazioni che non hanno mai vissuto, né conosciuto la pace. Se pensiamo all’Afghanistan ci rendiamo conto che la pace è e resta una chimera, così come resta una chimera il bisogno di verità e giustizia per i familiari delle vittime dell’11 settembre. Nulla e nessuno potrà riportare in vita i loro cari. La ricorrenza di questo drammatico ventennale deve spingere a rafforzare l’impegno per la pace e la non violenza, puntando al riconoscimento e al rispetto dei diritti umani di tutti, perché solo così si può togliere terreno fertile ai predicatori di odio. Quel giorno ha cambiato le vite di tutti e ha segnato uno spartiacque tra chi ama la vita e chi della vita non ha alcun rispetto.


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