Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Comitato editoriale

Il caso Crowter e l’altra faccia di un mondo Down Sindrome Free

Per l’alta corte inglese, se c’è un sospetto di anomalia del feto, è legittimo interrompere la gravidanza anche oltre i termini e addirittura fino a prima della nascita. Respinta la richiesta di modifica avanzata dall’attivista sui diritti umani Heidi Crowter, donna inglese con Sindrome di Down.

di Redazione

Veniamo a conoscenza, tramite un articolo pubblicato sul quotidiano Avvenire in data 30 settembre 2021, della notizia di una importante sentenza pronunciata dall’Alta corte Inglese che conferma la legittimità della norma, già operante in quello Stato, che consente l’interruzione della gravidanza, anche oltre il limite massimo di 24 settimane, addirittura fino al momento della nascita, se viene individuata una anomalia del feto che possa comportare che il nascituro abbia anomalie fisiche o mentali tali da comportare disabilità grave.

In buona sostanza l’Alta corte inglese respinge la richiesta avanzata dall’attivista sui diritti umani Heidi Crowter, donna inglese con Sindrome di Down, di modificare la legislazione in vigore in Inghilterra, Galles e Scozia (Abortion Act 1967) che permette alle donne, appunto, di interrompere la gravidanza fino al momento della nascita se individuato il rischio sostanziale di un feto “con anomalie fisiche o mentali tali da comportare disabilità grave”, ivi inclusa la Sindrome di Down.

Sebbene la Crowter abbia denunciato che tale legge costituisce a tutti gli effetti una violazione dei diritti umani, discriminando nonché stigmatizzando la Sindrome di Down e più in generale la disabilità, il verdetto negativo dei giudici porta quale giustificazione il fatto che la normativa sull'aborto inglese, a loro parere, non è illegale o discriminatoria ma che, anzi, “mira a trovare un equilibrio tra i diritti del nascituro e delle donne”.

Una notizia che si pone nel solco di quanto, sempre più spesso, sta accadendo in vari paesi europei e del mondo. Un esempio che possiamo citare è quello dell’Islanda, che mira a diventare il primo paese europeo senza persone con Sindrome di Down, essendo tra l’altro già vicini a raggiungere questo obiettivo. Nessuno dice, tuttavia, che a pagare il prezzo di questa follia, con la propria vita, sono molti bambini che vengono abortiti anche in caso di un semplice sospetto che ci si trovi in presenza di una alterazione cromosomica come la Trisomia 21 (Sindrome di Down).

Anche l’emittente radiotelevisiva statunitense CBS ha recentemente pubblicato un servizio in cui racconta che le nuove tecnologie e la semplicità dei nuovi test diagnostici prenatali, sempre meno invasivi, che permettono di sapere se il feto presenta la Sindrome di Down. I dati disponibili dicono che in Islanda, ad oggi, secondo uno studio del Landspitali University Hospital di Reykjavik, circa l’80-85 per cento delle donne incinte fa ricorso ai suddetti test e che la tendenza preponderante è quella, una volta ricevuta risposta positiva, di porre fine alla gravidanza.

Lo statistico Roberto Volpi, che nel 2016 ha scritto il libro La sparizione dei bambini down, denuncia, numeri alla mano, una generale tendenza in tutta Europa (non solo nei paesi nordici, ma anche in Spagna, Grecia, Francia e anche Italia) a evitare quanto più possibile che vengano messi al mondo bambini con la Trisomia 21. L’obiettivo ultimo è quindi quello di rendere il mondo Down Sindrome Free.

A questo punto la domanda sorge spontanea: tutto questo che radici ha, a che cosa tende? Anffas si è occupata più volte del tentativo effettuato in epoca nazista, da parte dei suoi medici, di “sterminare” le persone con disabilità con il “progetto Action T4”. Si ha come l’impressione che questa ideologia non si sia mai assopita del tutto e che tutt’oggi, anche se derubricata come evoluzione della ricerca scientifica, di fatto nasconde un approccio prettamente eugenico.

È come se i sistemi sanitari di taluni Stati ritenessero un grande successo quello di trovare le soluzioni più idonee per indurre e convincere le mamme a non far nascere figli che, anche potenzialmente, possano poi sviluppare una grave disabilità.

O ancora, è come se tali Stati o i loro medici ritenessero che una società nella quale tutti i bambini nascono “sani” sia una società migliore. Ma se così fosse, come occorrerebbe comportarsi, secondo questa logica, con tutti coloro che dopo la nascita, o nel corso della loro vita, hanno delle disabilità gravi? Ripristiniamo la “rupe tarpea”? O troviamo forme più subdole per “eliminare” dalla faccia della terra tutti coloro che non corrispondono a determinati “canoni” o la cui vita non viene, da qualcuno, ritenuta degna di essere vissuta?

Per le famiglie Anffas, tutto questo rappresenta un forte arretramento rispetto alle tante battaglie poste in essere nei suoi 63 anni di vita per far comprendere che la diversità fa parte della condizione umana e che la vita va sempre rispettata in qualsiasi forma essa si manifesti. Piuttosto gli Stati dovrebbero attuare ogni sforzo affinché tutti i propri cittadini, a prescindere dal loro funzionamento o caratteristiche personali, dispongano di tutti i servizi e sostegni per poter vivere una vita degna e pienamente inclusa nella società in condizione di pari opportunità con tutti gli altri cittadini. Alle mamme, oltre che dare l’opportunità di valutare se proseguire o meno la loro gravidanza inducendole ad interromperla, dovrebbe sempre essere garantito che in presenza di un figlio con disabilità non verranno mai lasciate sole e che potranno sempre contare su tutta una serie di aiuti, supporti e servizi per poter continuare a vivere al meglio anche le loro vite.

Ciò non significa limitare la libertà di scelta delle donne, che va sempre rispettata e salvaguardata, ma sottolinea l’urgenza a una maggiore presa di coscienza da parte della società – a partire dalle autorità preposte – rispetto ai messaggi che si rischia di inviare quando si induce l’opinione pubblica, anche con provvedimenti apparentemente neutri, a vedere la condizione di disabilità come una condizione di vita non degna di essere vissuta o addirittura alla quale occorre “tout court” negare il diritto alla vita. Riprendendo le parole di Heidi Crowter, la vita delle persone con disabilità non è meno preziosa di quella degli altri e non è tantomeno definibile in base al numero di cromosomi o dalla patologia che si ha.

Ancora troppo spesso invece la disabilità è oggetto di pregiudizi di stigma sociale accompagnati da una visione “economicista” e “sanitarizzante”, foriera di tutta una serie di problematiche, ivi compresa quella di cui ci stiamo occupando. Lo abbiamo sperimentato, ahimè, sulla nostra pelle durante la pandemia da Covid-19, lo apprendiamo quotidianamente dalle diverse proposte di legge su eutanasia e aborto, dai numerosi ed allarmanti casi di discriminazione e violenza nel quotidiano… la fotografia che ne scaturisce è lampante: c’è ancora molto da fare.