Welfare & Lavoro

Welfare di comunità, i processi collaborativi necessari

L'intervento di Ennio Ripamonti, psicosociologo, formatore e docente dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel terzo dei cinque appuntamenti del ciclo di workshop a cura dell’impresa sociale Consorzio Girasole in partnership con Euricse, con il patrocinio del Comune di Lecco, Confcooperative dell’Adda, Csv Monza Lecco Sondrio e Anci e con il contributo di Fon.Coop

di Ennio Ripamonti

La cultura della collaborazione passa attraverso dei dispositivi, termine che ha un sapore molto meccanico anche se nel suo significato più nobile e filosofico introdotto da Michel Foucault è un insieme eterogeneo di aspetti.

Nell’epoca odierna ci immaginiamo che per produrre collaborazione abbiamo la possibilità di mettere in campo dei meccanismi. Cosa vera solo in parte. La collaborazione è un processo caldo che non ha esiti e forme subito positive. Spesso si giunge alla collaborazione transitano dal conflitto, dalla competizione e del confronto. Dobbiamo liberarci da un’idea pacificata della collaborazione. Nelle comunità e nei territori abbiamo tensioni che vanno in diverse direzioni. In psicologia sociale da tanti anni si vede che le comunità più coese, con più forte senso di appartenenza, raramente sono inclusive. Sono molto collaborative all’interno e chiuse verso l’esterno. Abbiamo bisogno di concepire questi processi maneggiandoli per l’ambivalenza che hanno.

I contesti, parola che viene dal latino contextere, essere tessuto con, ci formano e deformano. Il nostro welfare collaborativo è fatto di tante osterie tipiche, ha dei grandi principi generali ma poi si declina grazie al genius loci. Se conosciamo meglio i nostri contesti e i nostri territori possiamo prendere alcuni principi generali e declinarli in un posto facendo leva sulle forze costruttive e positive che lo caratterizzano. Quindi alleandoci con quelle energie e sorgive di una comunità di tipo collaborativo.

Tornando al termine dispositivo, nel senso usato da Foucault, è fatto da “strutture architettoniche” dispositivi che oggi chiameremmo hardware: le istituzioni, le leggi, misure amministrative. Però ci sono anche aspetti che chiameremmo software che si basano su discorsi, proposizioni morali, etica, principi e coerenza con il comportamento.

Il welfare collaborativo ha bisogno di coniugare questi due aspetti e le persone che introducono i processi sono rilevanti. Può sembrare pleonastico ma dobbiamo essere noi, come operatori, dei grandi artisti della collaborazione per generare processi collaborativi.

Venendo dall’esperienza dello sviluppo di comunità, un approccio nato fuori dalle istituzioni costruito storicamente su processi dal basso, non mi immagino che questi processi si risolvano nelle infrastrutture professionali e nelle istituzioni, Il grande valore aggiunto è l’ingaggio e a catalizzazione di pezzi di società che non sono mercato, terzo settore o stato. Ma persone e gruppi informali. Questo introduce un modo di interagire che sfugge ai canoni e alle forme che ha il lavoro sociale professionale però introduce un’energia. Mi piace parlare di riti di tipo collaborativo. Costruire delle situazioni in cui le persone possono essere portatrice di bisogni, interessi e risorse e possano essere ingaggiate nelle nostre forme di welfare di comunità. Questo aspetto fa leva in particolare su una cosa fondamentale: una qualità di comunicazione e ascolto molto ampia, che va fuori dai territori consueti del welfare. Si tratta di introdurre forme di ricerca partecipativa. Approccio outreach che va a cercare gli interlocutori. Abbiamo bisogno di un welfare “in uscita” direbbe Papa Francesco. Un compito che spetta a tutti, dalle istituzioni al terzo settore, per riguadagnare fiducia credibilità e rappresentanza e non risolversi in una dimensione aziendale. O il terzo settore è un soggetto che produce società e comunità o non è.

I dati delle ultime elezioni amministrative mi hanno molto colpito: sono un segnale di allontanamento forte. Il welfare è una forma di ricostruzione della democrazia locale, della rigenerazione del legame fra persone, associazioni e istituzioni. Da un punto di vista tecnico significa molto lavoro sul territorio, incontri nei parchetti, citofonate, serate con i volontari. Un lavoro di comunità di base. Altrimenti questo welfare di comunità rischia di diventare una faccenda da addetti ai lavori.

È una sfida molto interessante.


*Ennio Ripamonti è psicosociologo, formatore e docente dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano


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