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Crisi adottive: la solitudine delle famiglie, l’inefficacia del sistema

La denuncia di una famiglia adottiva, il cui figlio ha crisi esplosive che i genitori non sono in grado di gestire. Hanno chiesto l'invio in una comunità: due hanno già dimesso il ragazzo, inviandolo in Pronto soccorso. Da sei settimane il ragazzo è in ospedale, senza contatti con la famiglia. Serve una comunità terapeutica, ma le liste d'attesa sono troppo lunghe. «Una soluzione non si trova, ma tutti dicono di aver fatto la loro parte e sono sereni. Tutti tranne un bambino di 12 anni e la sua famiglia disperata»

di Sara De Carli

Questa è una storia vera, anche se pensare che sia inventata farebbe a tutti meno male. È la storia di una famiglia come tante altre e di un dolore che, pur essendo vissuto anche da altre famiglie, è ogni volta un dolore come nessun altro. È la storia di una famiglia adottiva, in cui l’amore (enorme) non basta per affrontare le sfide educative poste da un adolescente in crisi. È la storia di una famiglia che si è fidata dei servizi e delle istituzioni deputate a dare risposte e che sta trovando invece solo silenzio, vuoto e fredda burocrazia.

Fabio, il papà di questa famiglia, ci ha messo ancora una volta la faccia. Prima fidandosi del sistema di presa in carico e protezione (ancora una volta, a dispetto di tutto) e poi raccontando: non per trovare una risposta per sé ma per provare a cambiare le cose che non vanno, per tutti. Perché le cose non vanno, diciamocelo.

«Noi siamo in quattro, siamo una famiglia. Una famiglia come tante, una famiglia adottiva. Un papà, una mamma, una sorellona di quasi vent’anni e un fratellino di dodici anni e mezzo. La vita del più piccolo è complicata da problemi legati alla sfera psicologica che, purtroppo, negli ultimi dieci mesi si trasformano in qualcosa di esplosivo e impossibile da gestire con le sole risorse della famiglia», racconta Fabio. Ci siamo parlati, c’è un post su Facebook, a chi frequenta il mondo adottivo non sarà difficile riconoscere nomi e cognomi di questa storia: non li mettiamo solo perché davvero, vorremmo davvero che la storia di Fabio desse voce alle altre storie che che non trovano il coraggio di parlare a voce alta.

Fabio e sua moglie chiedono aiuto ai Servizi Sociali del loro Comune che «vanno a scartamento ridotto con estrema lentezza di fronte a qualcosa che sta divenendo travolgente». Intanto, dinanzi ai momenti esplosivi del ragazzino, Fabio e sua moglie sono costretti a chiamare i Carabinieri della stazione locale. Matura la consapevolezza che è «necessario allontanare lo stesso da casa al fine di preservare la salute e la sicurezza di tutti. I Servizi Sociali, che già ben conoscono la situazione, sono restii ad avallare tale decisione/scelta della famiglia e ci vogliono tre carabinieri per convincere l’assistente sociale della necessità dell’intervento urgente». Come se per la famiglia fosse una passeggiata: «Provate ad immaginare il dolore di quel bambino, della sua mamma, del suo papà e della sua sorellona. Uno strappo necessario per salvarsi tutti eppure carico di una sofferenza indicibile», annota Fabio.

Provate ad immaginare il dolore di quel bambino, della sua mamma, del suo papà e della sua sorellona. Uno strappo necessario per salvarsi tutti eppure carico di una sofferenza indicibile

Il ragazzino viene accompagnato in una comunità educativa, dopo un mese manifesta il consueto disagio esplosivo. La comunità lo accompagna in Pronto Soccorso Pediatrico e lo dimette. Il papà resta in ospedale un paio di giorni, fino a quando arriva il Decreto del Tribunale dei Minorenni: è un decreto 403, quello con cui la pubblica autorità interviene con urgenza e in emergenza per provvedere alla protezione dell'infanzia. Qui l’emergenza non è togliere il minore da una situazione famigliare inadeguata e a rischio, ma a tutela del minore stesso, in accordo con la famiglia, collocarlo in un luogo che abbia le competenze specifiche per aiutarlo. Il decreto del Tribunale specifica la necessità di una nuova collocazione per il bambino, che non sia il rientro in famiglia. I Servizi indicano una nuova comunità educativa, molto distante da casa. «Una comunità 0-12 anni, con spazi ristretti e vicina ad una pericolosa tangenziale… A noi genitori è stato subito evidente che quella sistemazione non poteva rispondere alle esigenze esplosive del bambino», sottolinea Fabio. Dopo quattro settimane relativamente tranquille, in cui la famiglia può sentire il figlio telefonicamente una volta la settimana per pochi minuti e vederlo un’ora ogni due settimane sotto la supervisione di un educatore, a inizio gennaio accade quello che la famiglia aveva temuto: «Il bambino esplode in una delle sue crisi, come già avvenuto anche nella comunità precedente, i più piccoli sono terrorizzati, viene condotto in Pronto Soccorso e quindi ricoverato nel Reparto Pediatria dell’Ospedale locale. La comunità dimette immediatamente il bambino «adducendo l’impossibilità di sostenere le sue esplosioni» e di fatto da allora il ragazzino è ricoverato in Pediatria. Sono passate già sei settimane.

I servizi sociali del Comune chiedono alla famiglia che sia un genitore a stare accanto al figlio, in ospedale, «in quanto l’educatore incaricato di vegliare il bambino costa 244 euro al giorno»: «Ho rifiutato, ma che nessuno si permetta nemmeno di pensare che non abbia a cuore la salute di nostro figlio. Il punto è che precipitarci da lui dopo l’ennesima esplosione potrebbe instillare una sistematicità/riproducibilità del comportamento. “Io esplodo, arriva il mio papà o la mia mamma che mi consola, sto un po’ con loro”. Non può funzionare così», dice Fabio.

Da sei settimane, consapevoli che contatti telefonici non mediati da psicologo o educatore potrebbero scalfire il labile equilibrio del bambino, siamo in contatto costante con l’ospedale, ma forse il bambino pensa che mamma e papà lo hanno abbandonato per sempre

Infatti il Tribunale dei Minorenni emette un nuovo decreto che palesa al Curatore del Minore, alla CTU, ai Servizi Sociali e alla Neuropsichiatria la necessità di reperire a questo punto una Comunità Terapeutica adeguata alle esigenze delle patologia evidenziate. Da sei settimane nessuna soluzione si profila all’orizzonte. E da sei settimane la famiglia, consapevole che contatti telefonici non mediati da psicologo o educatore potrebbero scalfire il labile equilibrio del bambino, di fatto non lo sentono: sono in contatto costante con l’ospedale, ma «forse il bambino pensa che mamma e papà lo hanno abbandonato per sempre», si dispera Fabio.

Trovare un posto in una comunità terapeutica che possa prendere in carico il bambino e i suoi bisogni pare impossibile: troppi pochi i posti e troppo lunghe le liste d’attesa. Alla famiglia si chiede di «portare pazienza» e si ipotizzano spostamenti in altri reparti o ospedali fino al momento in cui un posto salterà fuori. Intanto il ragazzino resta ricoverato, sano, in un ospedale.

Noi genitori, in questa situazione, pur continuando ad avere la responsabilità genitoriale di fatto non possiamo decidere di dimettere nostro figlio dall’Ospedale e portarlo nella comunità. Non abbiamo alcuna possibilità di azione. Al massimo possiamo fare, su chiamata dei Servizi Sociali, i baby sitter in pigiama per nostro figlio, dentro un reparto di ospedale, per una sequela di settimane indefinite

«Abbiamo cercato strade alternative e trovato una comunità nella nostra zona che da anni segue minori con patologie simili a quelle di nostro figlio, pur non essendo accreditata per minori. La comunità è disponibile da subito, ma per il sistema dei servizi il fatto che non sia accreditata costituisce un ostacolo insormontabile. Noi genitori, in questa situazione, pur continuando ad avere la responsabilità genitoriale di fatto non possiamo decidere di dimettere nostro figlio dall’Ospedale e portarlo nella comunità. Non abbiamo alcuna possibilità di azione. Al massimo possiamo fare, su chiamata dei Servizi Sociali, i baby sitter in pigiama per nostro figlio, dentro un reparto di ospedale, per una sequela di settimane indefinite», dice Fabio. Per il resto, la sua conclusione è amarissima: «Tutto è fermo, ma tutti dicono di aver fatto la loro parte e che non si può fare altro che avere pazienza. E intanto non accade nulla. Una soluzione non si trova ma tutti sono sereni. Tutti tranne un bambino di dodici anni e la sua famiglia disperata».

Foto Viktor Talashuk, Unsplash


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