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Il pacifismo ritrovi la sua gente

Dialogo con Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink: «In questo momento dobbiamo mobilitarci, saremo in piazza sabato 26. Occorre coinvolgere la gente, le tante persone che non sanno nulla delle B61 ma che non vogliono la guerra»

di Sara De Carli

“Ma dove sono i pacifisti?”: è la domanda che da alcuni giorni percorre sottotraccia il dibattito intorno alla crisi ucraina. «È ancora forte lo stereotipo del pacifista che se ne sta zitto e buono a casa e poi, quando scoppia un conflitto armato, corre in piazza con la bandiera arcobaleno a protestare e invocare la pace», hanno scritto su Domani Mao Valpiana e Francesco Vignarca, del Movimento Nonviolento e di Rete Italiana Pace, rivendicando la crescita del movimento pacifista da un “pacifismo di testimonianza” al “pacifismo umanitario” che aveva peraltro già prefigurato Alex Langer: «Un movimento per la pace che fosse fatto principalmente o esclusivamente di marce e petizioni per chiedere disarmo o condanna di certe aggressioni militari non avrebbe grande credibilità, soprattutto se si limitasse ad invocazioni generiche di pace cui nessuno potrebbe dirsi contrario, ma dalle quali non deriva nessun effetto concreto. Sono convinto che oggi il settore R&S, ricerca e sviluppo della nonviolenza, debba fare grandi passi in avanti e non debba fermarsi alle ormai tradizionali risorse».

Per Alessandro Marescotti, fra i fondatori di PeaceLink, una rete telematica ecopacifista di cui è presidente, non è una questione di alternative: c’è un’attività di analisi e di pressione politica che il movimento pacifista porta avanti con continuità e che «rappresenta il salto di qualità fatto dal movimento», ma ora, in questo momento, servono anche le bandiere ai balconi, i presidi, le veglie di preghiera. «Adesso dobbiamo coinvolgere la gente, che non sa nulla delle armi nucleari ma ha paura, sia per dare un segno più visibile alla politica sia per dare voce a quel desiderio di pace che le persone hanno nel cuore», dice. «Il popolo della pace è vivo e presente, ci sono oltre 150 associazioni pacifiste e del volontariato che stanno facendo rete contro la guerra e che il 26 febbraio scenderà in piazza, città per città». Una mobilitazione nazionale che sul sito di Peacelink, in un’agenda virtuale, vedrà raccolti tutti gli appuntamenti.

Presidente, chi si è attivato?
A inizio febbraio abbiamo presentato un appello molto breve ma frutto di una lunga consultazione per una campagna di mobilitazione contro le minacce di guerra in Ucraina e per la costituzione di comitati per la pace a livello locale. In questo momento lo hanno firmato 187 associazioni e 1.708 persone singole. La cosa interessante è che ciascuna di queste persone non si è limitata a mettere una firma ma si è impegnata sostenere le iniziative di pace che facciano sentire la voce di chi ripudia la guerra, a partecipare alla costituzione di un comitato per la pace a livello locale. Ad agire. Dinanzi a una gravissima crisi come questa, dovevamo dare una risposta. Con questi comitati per la pace, da rilanciare, abbiamo organizzato una mobilitazione nazionale per il 26 febbraio.

In questi giorni c’è chi provocatoriamente si è chiesto “dove sono i pacifisti?”. In realtà il movimento pacifista ha sempre lavorato…
È stato fatto un lavoro forse meno visibile, ma importantissimo e svolto in maniera egregia. Ci eravamo dati un’agenda con alcuni temi, gli F35, la produzione e il commercio delle armi, il Trattato per la proibizione delle armi nucleari: l’attività continuativo che è stata fatta su questi temi rappresenta il salto di qualità fatto dal movimento pacifista, qualcosa che ha fatto del movimento pacifista italiano un soggetto importante che non a caso ha partecipato del Nobel per la Pace assegnato nel 2017 all’Ican. Ma in questo momento occorre anche scendere in piazza e saremo in piazza sabato: non importa se saremo pochi o tanti. Sono due cose complementari, non alternative. Seguire con continuità alcuni temi va benissimo, sia perché certe posizioni le devi maturare “prima” sia perché questo ci permette di avere delle “sentinelle della pace” sempre allertate, cosa che consente di fare pressione sulla politica che vuole stare ad ascoltare la voce della pace. Adesso però, accanto a questo, occorre coinvolgere la gente, le persone che non sanno nulla delle B61 ma che hanno paura della guerra.

Che cosa sono le B61?
A maggio arriveranno in Italia delle nuove armi nucleari, le nuove B61 modello 12, saranno dislocate ad Aviano e Ghedi nelle basi americane: è ovvio che serve un lavoro preventivo se vogliamo evitare che questo accada, insieme a quello in corso da tempo con la campagna “Italia ripensaci” per spingere l’Italia ad aderire al Trattato TPNW (Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons) votato all’ONU nel luglio del 2017 ed entrato in vigore nel gennaio 2021. A dire il vero anche se l’Italia non ha aderito al TPNW, ha aderito al Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) e quindi non potrebbe accettare quelle armi, secondo la corretta interpretazione del Trattato. Se lei chiede per strada alla gente, però, 9 su 10 non sanno nulla delle armi nucleari e forse nemmeno sanno dov’è esattamente il Donbass, ma delle armi e della guerra hanno paura e in questi giorni hanno un senso di angoscia perché avvertono quanto sono pericolosi i grandi della guerra. Noi dobbiamo rivolgerci non solo ai politici ma all’opinione pubblica, per dire che non vogliamo nessun coinvolgimento dell’Italia in una guerra.

In quest’ottica quindi scendere in piazza o mettere una bandiera alla finestra ha ancora senso?
Sì, non è solo per dare un segno più visibile alla politica ma anche per dare voce a quel desiderio di pace che le persone hanno nel cuore. La politica deve sapere che c’è una parte importante della società italiana che è solidale con Papa Francesco e che chiede che la politica ascolti tutte le persone che vogliono mettere al centro la pace. L’altro tema è che il movimento per la pace ha sempre svolto una funzione importate nell’opinione pubblica, siamo un soggetto chiamato a fare opinione: c’è una larga parte dell’opinione pubblica che in situazioni come queste si affida a noi pacifisti, si fida di noi perché non abbiamo conflitti di interesse, non tifiamo né per la Nato né per Putin né per Biden, non abbiamo rapporti con chi produce armi: abbiamo una terzietà rispetto agli attori del conflitto e possiamo essere una voce autorevole proprio perché non parteggiamo per nessuno.

Io peraltro sono convinto che qualunque momento quotidiano può costituire un’occasione per parlare di pace. Io ad esempio sono un insegnante e l’altro giorno in aula docenti ho chiesto ai miei colleghi “Scusate, che ne pensate della guerra?”. Ho mostrato un video, con una simulazione del conflitto nucleare che mostra come anche un singolo missile convenzionale lanciato da parte di una delle due potenze può innescare una catena di botta e risposta che porta fino al conflitto globale. Erano tutti attorno al mio smartphone e una collega ha detto “Dovremmo fare qualcosa, ci occupiamo di tante cose e di questa no”. È una battuta, ma mi ha fatto capire che la mia domanda è stata presa sul serio.

Foto Avalon/Sintesi


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