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Famiglia & Minori

Come prepararsi ad accogliere i bambini dell’Ucraina

Sono 3.533 i minori ucraini entrati in Italia dall'inizio del conflitto a questa mattina. «Per la gran parte non sono orfani e non possiamo scordare, nemmeno nell'emergenza, che bambini e ragazzi hanno esigenze specifiche di cui il sistema deve tenere conto», dice la professoressa Paola Milani. Ecco quindi che nella progettazione dell'accoglienza la logistica e la pedagogia devono andare insieme, fin da subito

di Sara De Carli

Sono 2.518 i minori ucraini entrati in Italia dall'inizio del conflitto alle 8 di ieri mattina su 6.608 cittadini ucraini finora accolti dall'Italia, secondo i dati forniti dal Viminale. Ventiquattrore dopo, questa mattina, sempre secondo il Viminale, i cittadini ucraini entrati in Italia dall’inizio del conflitto sono già 9.058, di cui 4.484 donne, 1.041 uomini e 3.533 minori. L'Onu ieri parlava di un milione di profughi usciti dall'Ucraina, mentre ai tavoli delle trattative fra Federazione Russa e Ucraina si cercava l'intesa – raggiunta – sulla creazione di corridoi umanitari con un cessate il fuoco temporaneo per consentire l'allontanamento di civili e il Consiglio Affari Interni della Ue trovava l'accordo sull'applicazione della direttiva per la protezione temporanea per chi fugge dalla guerra in Ucraina, con una protezione temporanea agli ucraini e ai non ucraini che risiedono in quel territorio. Moltissimi sembra saranno quindi i minori in arrivo, anche in Italia e il Paese si è già attivato per dare una risposta all'emergenza. Ma non possiamo scordare, nemmeno nell'emergenza, che bambini e ragazzi hanno esigenze specifiche di cui il sistema dell'accoglienza deve tenere conto, a cominciare dalla chiarezza sul fatto che nella maggioranza dei casi non stiamo parlando nè di minori orfani nè di minori che arrivano soli. E in ogni caso ricordando che la progettazione della loro accoglienza deve tenere costantemente presenti dei riferimenti pedagogici, non solo di logistica.

Paola Milani è professoressa ordinaria di Pedagogia Sociale e Pedagogia delle Famiglie all’Università degli Studi di Padova e referente nazionale del Progetto PIPPI, il programma di intervento per la prevenzione dell’istituzionalizzazione. Nei giorni scorsi ha pubblicato un post su Facebook molto commentato, da cui hanno preso forma degli “orientamenti operativi” per l'accoglienza dei bambini in arrivo dagli orfanotrofi ucraini, ad uso degli enti locali, dei servizi territoriali, delle scuole, delle associazioni e di tutti coloro che saranno coinvolti nella realizzazione della migliore accoglienza possibile di questi bambini. «I principi pedagogici devono essere la base della nostra progettazione, in coerenza con la Convenzione Internazionale dei Diritti dei bambini del 1989», ricorda la professoressa. Perché al di là della evidente e urgente necessità di una regia unitaria per l’accoglienza (vedi il Tavolo avviato dai ministri Bonetti e Di Maio), che dia anche chiarezza sui tipi di permesso che queste persone avranno e sulla titolarità della loro presa in carico, è importante ricordare che un bambino è prima di tutto un bambino.

Professoressa, cominciamo con il chiarire che l’immagine emotiva dell’«orfano ucraino» per fortuna non è sempre corrispondente alla realtà, almeno non in questo momento. Chi sta arrivando?
Per quello che capisco, i minori che stanno arrivando arrivano insieme a mamme e nonne, mentre i papà restano in Ucraina. Arrivano sì anche minori che hanno fatto il viaggio da soli, ma non sono minori non accompagnati: si ricongiungono alla mamma o alla nonna che è già in Italia per lavoro. Queste sono le prime due situazioni, al momento le più numerose. La terza è quella di minori che arrivano dagli orfanotrofi, che da noi sono stati chiusi nel 2001 ma che in diversi paesi dell’Est sopravvivono. Ma anche in questo caso è bene precisare che non tutti i bambini che vivono in orfanotrofio sono orfani.

Chi sono i bambini che vengono dagli orfanotrofi ucraini?
Una parte sono sicuramente orfani, ma non tutti. Quindi la prima cosa da tenere a mente è che non è scontato che siano minori adottabili. Vivere in un orfanotrofio non equivale ad essere orfani: questi bambini possono avere un genitore vivente o anche entrambi, ma questi genitori non sono in grado di accudirli con regolarità e quindi li hanno affidati a un orfanotrofio. In questo caso però è molto probabile che una relazione con i genitori ci sia. Teniamo presente che in molti paesi dell’Est europeo non esiste o non è diffuso l’affido familiare, quindi per una famiglia in difficoltà nella cura dei figli la risposta è l’orfanotrofio, un po’ come da noi 50 anni fa quando le famiglie mettevano i figli in collegio o in un istituto. Se i genitori sono presenti nella vita di questi minori, sarà importante capire come e in che misura mantenere i contatti oltre ovviamente a tenere traccia, anche nell’emergenza, di tutta la documentazione che permetta il ricongiungimento. Una terza condizione dei bambini provenienti dagli orfanotrofi è rappresentata dai minori malati o con disabilità, che sono stati collocati in una istituzione perché a casa non c’era modo di poterli curare. Sono tre tipologie di bambini differenti, con bisogni differenti, e nell’accoglierli bisognerà tenere conto delle diverse condizioni. Per questo ben venga la disponibilità spontanea delle famiglie all’accoglienza, ma è importante che le famiglie che si aprono all’accoglienza sappiano cosa stanno facendo, sappiano che c’è differenza tra affido e adozione, tra una permanenza breve o lunga… non possiamo dare per scontato che le famiglie, di cui va sempre apprezzato lo slancio generoso, sappiano tutte queste cose. Bisogna informarle invece del fatto per esempio che si può dare disponibilità anche per forme leggere di accoglienza: si può essere accolti in famiglia anche solo nel fine settimana, o in alcuni pomeriggi. Per questo serve una regia dei servizi pubblici: senza il volontariato non si fa nulla, sia chiaro, ma non può essere lasciato tutto solo al volontariato.

Per quanto riguarda l’accoglienza, cosa è importante tenere presente?
Innanzitutto è importante affermare che noi in Italia e in Occidente abbiamo fatto molti anni fa una scelta di de-istituzionalizzazione che ha riguardato tutte le aree, dalla disabilità ai minori e siamo ormai abituati a organizzare l’accoglienza di bambini che temporaneamente non possono stare nella loro famiglia di origine in contesti che rispettino l’idea base per cui ogni bambino ha diritto di crescere in una famiglia: quando non è la sua, in una famiglia affidataria o in piccole comunità. Ci abbiamo messo 50 anni a chiudere gli orfanotrofi e adesso non possiamo certo riaprirli sulla spinta dell’emergenza, perché non ci sono abbastanza famiglie o abbastanza posti nelle comunità. Va bene per nell’immediato ma non se l’accoglienza si dovesse prolungare. Dobbiamo tenere fermo, come Paese, il fatto che non si possano riaprire orfanotrofi.

Il tutore volontario per minori stranieri non accompagnati potrebbe essere una risorsa?
Certamente. In questo momento non credo ci siano molti ragazzini che arrivano soli, come dicevo prima, ma sicuramente – poiché si tratta di persone già formate – potrebbero essere un tramite importante per veicolare informazioni corrette in materia.

Lei richiamava alla necessità di avere, nella progettazione dell’accoglienza, non solo un’attenzione alla logistica ma anche un’attenzione pedagogica. Quali rischi vede?
Un rischio è quello di far vivere a questi bambini delle dinamiche di abbandono, essere scombussolati, passare da una famiglia all’altra o da una famiglia a una comunità. L’altro rischio, speculare, è quello dell’appropriazione. Tra questi due estremi ci vuole la capacità di trovare per ogni bambino la sua giusta misura. Perché non è nemmeno vero che i piccoli stanno tutti meglio in affido e i grandi tutti meglio in comunità… Chi arriva dagli orfanotrofi per esempio arriva con delle figure di riferimento, delle educatrici: questi legami vanno salvaguardati, così come quelli con i compagni che a volte sono fortissimi. Quindi bisogna cercare il più possibile di collocarli in famiglie vicine, garantire che possano sentirsi al telefono, vedersi una volta alla settimana…

Ci sarà il tema della salute e quello della scuola…
Nel periodo di permanenza in Italia vanno garantite almeno l’assistenza pediatrica di base e le relative vaccinazioni e l’assistenza psicologica nei casi in cui si riveli questa necessità. Ogni bambino poi ha diritto all’educazione e tutti sappiamo quanto la scuola sia fondamentale nella “normalità” quotidiana di un bambino. Se i tempi di permanenza diventeranno lunghi, sarà importante prevedere che questi bambini possano frequentare le scuole, possibilmente dopo aver avuto accesso a un percorso di apprendimento della lingua italiana. Se invece la permanenza in Italia sarà breve, si potrebbero organizzate esperienze di nido e scuola provvisorie, interclasse, in luoghi comunitari, magari gestite da dirigenti scolastici, insegnanti e educatori volontari, in pensione con il coinvolgimento dei nostri studenti universitari. Quel che è certo è che occorrerà creare a livello locale delle “cabine di regia” dell’accoglienza dove ci sia l’ente locale, la scuola, l’Asl, l’univesità, il volontariato, le parrocchiee… La parte logistica dell’accoglienza è la prima, ma poi dobbiamo garantire qualità della vita a queste persone.

Foto Bryan Smith/Avalon/Sintesi


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