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Iosa: «Serve una scuola in emergenza, coinvolgendo la comunità ucraina in Italia»

Già ispettore scolastico e dirigente scolastico, con una lunga esperienza nelle associazioni impegnate nell’accoglienza dei “bambini di Chernobyl”, Raffaele Iosa: «Questi ragazzi non sono qui per una vacanza e non sono migranti economici. La scuola italiana deve mettere in campo un’esperienza di accoglienza originale, che abbia forte in sé l’idea del ritorno. Non dobbiamo convertirli in immigrati nonostante loro»

di Sara De Carli

La scuola si prepara ad accogliere le studentesse e gli studenti ucraini che stanno arrivando in Italia. Il Ministero dell’Istruzione venerdì sera ha inviato una nota alle scuole con le prime indicazioni, stanziano un milione di euro per garantire il diritto allo studio, il supporto psicologico a bambine e bambini, ragazze e ragazzi in fuga, mediatori culturali. «Stiamo lavorando per far sì che ogni bambino e ragazzo in fuga dalla guerra possa essere accolto con il sostegno necessario e proseguire il proprio percorso educativo e formativo». Il Ministero ha invitato le comunità scolastiche a coinvolgere i nuclei familiari e a offrire occasioni di socializzazione anche in orario extra-scolastico.

Raffaele Iosa, già ispettore scolastico e dirigente scolastico, ha avuto anche una lunga esperienza in AVIB, la federazione che raccoglie le associazioni di volontariato italiane in Bielorussia, impegnate nell’accoglienza dei “bambini di Chernobyl”. In questi giorni convulsi, con 7mila minori già entrati in Italia, le prime scuole in cui i bambini sono già arrivati e la volontà diffusa di accogliere nella maniera migliore possibile questi ragazzi, c’è un punto su cui Iosa vuole richiamare l’attenzione: «Questi ragazzi stanno scappando da una guerra. Ogni sera telefonano al papà, sperando che risponda e che sia ancora vivo. Non sono qui per una vacanza e non sono migranti economici. La scuola italiana adesso per loro deve mettere insieme qualcosa di originale, qualcosa di diverso da quello che ha fatto finora. Serve un’esperienza di accoglienza originale, che abbia forte in sé l’idea del ritorno. Non dobbiamo convertirli in immigrati nonostante loro», dice. Per questo, «può sembrare un paradosso, ma non importa che imparino l’italiano, importa di più che proseguano in qualche modo il loro curricolo scolastico, magari coinvolgendo le tante donne ucraine che sono in Italia per lavoro, fra cui ci sono anche molte insegnanti. Una scuola di emergenza, dove riescano il più possibile a continuare il loro percorso di studi. Dobbiamo dargli l’idea che stiano costruendo per tornare, non fare un ulteriore strappo in questo momento».

Photo by Tom Hermans on Unsplash


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