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Cooperazione & Relazioni internazionali

La dura prova del pacifismo

La manifestazione nonviolenta di Roma di domenica scorsa avrebbe dovuto far rallegrare il cuore, 50mila persone in piazza a chiedere lo stop alle armi. Ma non è andata proprio bene, questa è una guerra difficile anche per chi vuole la pace

di Angelo Moretti

La manifestazione nonviolenta di Roma di domenica scorsa avrebbe dovuto far rallegrare il cuore, 50mila persone in piazza a chiedere la pace e supplicare di abbassare le armi, tanti giovani e tante donne, tante testimonianze importanti ed autorevoli unite in un solo coro.

Ma non è andata proprio bene, questa è una guerra difficile anche per chi vuole la pace.

Il 15 febbraio 2003 si contarono oltre dieci milioni di manifestanti in tutto il mondo e contemporaneamente in tutte le capitali dei cinque continenti, uniti contro la guerra preventiva in Iraq. Il grande sociologo tedesco Ulrich Beck scrisse che quella marcia planetaria segnava una svolta della coscienza cosmopolita: “per la prima volta una guerra è stata considerata un problema di politica interna mondiale, che ha coinvolto l’intera umanità. Anche se su di esso la comunità atlantica si è quasi spezzata”. Anche i movimenti contrari alla globalizzazione degli affari e dei mercati diventavano movimenti di globalizzazione politica. A metà marzo del 2003 la guerra fu sferrata da USA e Regno Unito senza nessun avvallo dell’ONU e contro l’opinione pubblica mondiale. Fu il primo peccato capitale del terzo millennio, da quella guerra ingiusta ed inopportuna contro il regime di Saddam ne discesero gli orrori delle torture ad Abu Grahib, poi l’instabilità regionale, la nascita dell’ISIS e il conflitto esteso in Siria, che in geopolitica fu subito ribattezzato “Siraq”. La guerra preventiva fu la vergogna mondiale delle balle, smascherate dalle agenzie ONU, dei governi americani ed inglesi che avevano invano tentato di far credere, con prove false, che la dittatura irachena fosse un imminente pericolo nucleare e chimico. Non ci furono dubbi sul fronte pacifista, nessun distinguo come accaduto nelle piazze di Roma tra governisti ed antigovernisti, tra CGIL e CISL, e comparvero finanche gli scudi umani, un esercito di volontari pacifisti che partirono per fungere da deterrenti al conflitto armato.

Non è così nel 2022. Cosa è giusto fare per affermare la pace in Ucraina non lo sa praticamente nessuno. Si può discutere su cosa andava fatto prima o non andava fatto, sugli errori della Nato e della sua pressione ad est, ma anche dei lacchè di Putin, dei sovranisti e dei governi liberali che gli hanno dato spago abbondante, tanto abbondante da tenerci legati tra gas, grano e minaccia nucleare. Si può discutere sul ruolo della Cina nella tenuta degli equilibri squilibrati del pianeta, sul ruolo di deterrenza di altri governi in odore di regime come quello di Erdogan, ma il pacifista che insegue il grido di “Tu non Uccidere”di mazzolariana memoria vorrebbe dare una risposta alla resistenza armata del popolo ucraino contro l’invasore russo e vorrebbe dire con chiarezza se quei partigiani vanno aiutati e come, non domani, stasera. La provocazione della nonviolenza attiva prevede il “combattimento” e non certo la resa. Nel pensiero di Ghandi l’ahimsa, l’esercizio della nonviolenza, era solo un primo passo verso il Satyagraha, la forza della verità, che conduce alla vittoria. Le battaglie nonviolente si vincono per l’esercizio del satyagraha non semplicemente nella scelta di non imbracciare i fucili ma facendo avanzare a testa alta il corpo di chi resistendo in piedi e disarmato afferma l’esistenza di una verità più profonda di quella apparente dei rapporti di forza. Vince chi afferma un’idea anche rimettendoci con il corpo, come gli ucraini che a mani nude cercano di fermare i convogli blindati, perde sempre chi cerca di imporre con la forza un’idea ad un altro uomo che gli sta di fronte in modo nonviolento.

Nell’Europa cristiana il crocifisso del 2022 non è più un simbolo da appendere alla parete delle scuole per una guerra di posizione tra identità religiose diverse, ma una pedagogia della rivoluzione in cui il Re è quello che afferma la sua vittoria con l’apparente sconfitta della croce.

Non si può scendere facilmente in piazza come se fossimo equidistanti nelle armi tra gli oppressi ed oppressori senza rischiare di perderci nella retorica. La piazza serve più che altro a gridare il domani che vogliamo. Domani dobbiamo certamente tagliare il cordone ai sistemi di potere malati che guadagnano fette di mercato nel turbocapitalismo e nel consumismo globale: dobbiamo dire con forza che un futuro di pace non sarà certamente assicurato nella mossa di sostituire il gas di Putin con quello di un emiro, anche se fosse illuminato. Semmai si protrae così l’instabilità precaria della pace “ a spese degli altri”.

Nella dimensione dell’oggi la nonviolenza attiva può essere praticata solo nella ricerca di ogni forma possibile per essere accanto agli ucraini che resistono, è su questa posizione che la piazza non ha potuto prendere ancora una parola chiara, perché ancora non c’è. Possiamo solo far dialogare i due popoli in ogni modo ed in ogni dove, riconoscendo comunque con onestà il limite dell’oggi , senza perdere la speranza che anche nel limite possa nascondersi una storia inedita, ancora da cercare.


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