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Ucraina. Cosa ci resta da fare? Abbracciare le vittime e farle parlare

“S'io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto”, cantava Francesco Guccini. Ebbene, anche l’aggressione russa in Ucraina ha radici lunghe nella storia, ha le sue cause e i suoi pretesti, Ma nessuna di queste giustificano “le attuali conclusioni”, l'orrore cui assistiamo. Non è però tempo di dibattiti. Dibattiti sopra i corpi martoriati degli ucraini e delle ucraine, degli anziani e dei bimbi

di Riccardo Bonacina

Prologo, cause e presteto

“S'io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto”, cantava Francesco Guccini. Ebbene, anche l’aggressione russa in Ucraina ha radici lunghe nella storia, ha le sue cause e i suoi pretesti. Ma nessuna di queste giustificano “le attuali conclusioni”, per restare a Guccini. Certo c’è l’ansia della Russia provocata dall’allargamento Nato verso Est e insieme il terrore di Putin nel vedere che i popoli a lui vicini vogliono la libertà e l’autodeterminazione, si sottolinea il delirante disegno dell’ex colonnello del KGB di riunire “il mondo russo” (Ruskij Mir come detto il 24 febbraio scorso) e la debolezza della diplomazia occidentale. Persino la storia getta la sua lunghissima ombra su quello che sta accadendo, dalla devastazione mongola di Kiev del XIII secolo, alla carestia provocata dalla collettivizzazione dell’agricoltura operata da Stalin che provocò la morte di quasi 5milioni di ucraini, dalla guerra e l’occupazione tedesca nel 1942-43 che causò la morte di altri 4 milioni di ucraini (di cui un milione di ebrei), per arrivare all’unico precedente di invasione di uno Stato sovrano in Europa, quando da una parte Hitler e dall’altra Stalin, nel settembre 1939 invasero la Polonia e se la spartirono. Ecco sono tutte queste ombre della storia e i precedenti di Putin a tornare al centro della nostra vita oggi di europei senza memoria.

La pace che non abbiamo preparato

Insieme a tutto questo, un’altra ombra ci raggiunge, la consapevolezza di come abbiamo sprecato quasi 80 anni di pace, noi baby boomers abbiamo scambiato la pace come una comoda poltrona su cui sedersi per fare gli affari nostri, così le generazioni che hanno seguito la hanno data per scontata scambiando la libertà per un “faccio ciò che mi pare e piace”. Abbiamo chiuso gli occhi davanti ai massacri in Cecenia e in Siria, abbiamo continuato a fare affari con l’autocrate di Mosca e i suoi oligarchi che finanziavano il nostro panem et circenses, da Abramovič a Gazprom.

Come ha scritto Paolo Rumiz: “Da decenni finanziamo il riarmo di Putin comprando il suo gas e, pur di avere il culo al caldo, abdichiamo dai principi fondativi della nostra democrazia. Cecenia? Anna Politkovskaja? Tutto dimenticato. Meglio sorseggiare aperitivi, guardare Netflix e intanto delegare alla sola America la nostra difesa, senza integrare il pensiero atlantico con una visione mediterranea. Eppure, mai come ora è tempo di esportare la democrazia in un altro modo, senza erodere gli spazi cuscinetto fra noi e la Russia e senza far danni irrimediabili come a Kabul, dove siamo stati cacciati a pedate da un’orda di guerrieri scalzi”.

Se vuoi la pace prepara la pace, scriveva don Primo Mazzolari (qui nell’instant book Letture per la pace), e aggiungeva “Se siamo un mondo senza pace, la colpa non è di questi e di quelli, ma di tutti”. Ecco, per ottant’anni non abbiamo preparato la pace, educando il popolo al dialogo, sempre, educando noi e i nostri figli, per citare Papa Francesco, al “Permesso, grazie, scusa”. Dopo la caduta del muro di Berlino abbiamo creduto alle progressive sorti del consumo globale che invece ha generato diseguaglianze e rancori, abbiamo sprecato tempo e libertà consumando beni e giorni. Anni in cui, nonostante le crisi, non si è cambiato il segno di un’economia predatoria e a beneficio di pochi (leggere “Se vuoi la pace prepara la nuova economia”).

Le attuali conclusioni

Nessun dato causa o pretesto lasciava però supporre le attuali conclusioni, nulla lasciava presagire l’attuale orrore. Ora, non è però tempo di dibattiti. Dibattiti sopra i corpi martoriati degli ucraini e delle ucraine, degli anziani e dei bimbi. I corpi per strada senza vita, i corpi rintanati da oltre 15 giorni nei bunker o nella metro senza cibo, acqua e medicine, come a Mariupol, la seconda città dell’Ucraina, vera città martire. L’aggressione senza giustificazione alcuna della Russia distrugge cose e persone e pare non volersi fermare sorda ad ogni appello e a ogni serio tentativo di mediazione. Le discussioni sopra il dato di realtà atroce, violento, catastrofico (2,5 milioni di ucraini usciti dal Paese, per la metà bambini e bambine) sono per me intollerabili. Quando Gino Strada disse “Non sono pacifista, sono contro la guerra” probabilmente voleva sottrarsi sia agli ayatollah del pacifismo oggi attivisti sui social più che altrove e dall’altra parte agli arruolatori da talk show che inneggiano all’escalation militare.

C’è una sola cosa da fare, io credo, abbracciare le vittime, soccorrerle, aiutarle, prenderle per mano, accoglierle. Questo deve rubarci ogni energia, ogni anelito, ogni parola. Tantissimi italiani, polacchi, rumeni, moldavi, ungheresi, slovacchi lo stanno facendo, lasciamo i dibattiti a chi sta sul tavolino e al computer o sul divano ora e sempre. Il lavoro più prezioso in queste prime due settimane di guerra della Russia contro l’Ucraina è stato quello degli inviati sul terreno, sono i nostri occhi, tramite loro ci avviciniamo alla sofferenza di un popolo (ne cito due per tutti, Francesca Mannocchi e Nello Scavo). Ancora, però, non mi basta, perciò nei prossimi giorni partirò per provare ad essere ancor più vicino. Contro le fake news e le propagande bisogna fare il possibile per avvicinarsi alle vittime, guardarle da vicino. E dar loro parola.

Cosa possiamo fare?

In un bel libro, Davanti al dolore degli altri (Nottetempo, 2021) Susan Sontang scrive: “Chi crede che oggi la guerra possa essere abolita? Nessuno, neppure i pacifisti. Speriamo soltanto (e finora invano) di fermare i genocidi, di consegnare alla giustizia chi commette gravi violazioni delle leggi di guerra (perché esistono leggi di guerra a cui i combattenti dovrebbero astenersi) e di riuscire a fermare certe guerre imponendo alternative negoziali al conflitto armato…Alcuni hanno a lungo creduto che se fossimo riusciti a rendere l’orrore sufficientemente vivido, i più avrebbero finito per comprendere l’enorme insensatezza della guerra. E la guerra è tornata”.

La guerra è tornata e noi abbiamo comunque il dovere di far vedere quanto la guerra sia “Sangue e merda, sia che si vinca, sia che si perda” (Giovanni Testori, Macbetto). Come canta Jannacci la guerra “è proprio da vedere perché la gente sai magari fa anche finta. Però le cose è meglio fargliele sapere”. Bisogna guardare i milioni profughi costretti ad abbandonare tutto, bisogna guardare quelli che sono rimasti nelle fredde città e villaggi senza acqua, senza cibo, senza riscaldamento, senza medicine, e gli uomini sulle strade che piangono per il troppo orrore.

Far parlare le vittime

Bisogna guardare il dolore degli altri da vicino per capire quanto sia anche nostro, guardarlo e farsi invadere da mille dubbi su ciò che bisognava e bisogna fare. Scrive Sviatoslav Shevchuk il vescovo cattolico di Kiev: “Oggi con il dolore nel cuore osserviamo come nelle città assediate, ad esempio, a Mariupol, senza preghiera, senza rispetto cristiano, senza funerale cristiano nelle enormi fosse comuni vengono sepolte migliaia di persone senza nome. In una sola Mariupol, secondo i dati ufficiali, in questi giorni sono morti quasi millecinquecento civili seppelliti nelle fosse comuni”. C’è una sola certezza, quella dell’abbraccio forte a chi soffre e quello di non stancarsi di fare il bene (qui un precedente post)

Un grande regista russo, Lev Dodin (lo citiamo per ricordare quanti soffrono anche in Russia), in una accorata lettera a Putin, scrive: «Cosa ci resta da fare? Pregare? Pentirsi? Sperare, supplicare, esigere, protestare, avere fede? Probabilmente tutto quello che non abbiamo fatto finora: amare l'altro, perdonarlo come perdoniamo noi stessi, non credere al male e non confondere il male con il bene».


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