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Cooperazione & Relazioni internazionali

«Viviamo in un incubo ma dobbiamo aiutare i pazienti»

Due psicoanalisti di Khakriv descrivono la situazione e lo stato emotivo dopo la fuga dalla loro città sotto assedio. Mykhaylo è costretto a seguire soltanto i casi di crisi più acute perché molte persone non si trovano in condizioni di sicurezza sufficienti per fare i trattamenti. I familiari e i suoceri di Ksenia abitano in Russia e la accusano di essere filonazista. «Non è vero, ma non riesco a farli ragionare»

di Luigi Alfonso

Quattro idiomi, due storie e un’interprete per un toccante dialogo a distanza, con la psichiatra genovese Paola Solano che si destreggia con l’italiano, l’ucraino, il tedesco e l’inglese per la traduzione che ci consente di raccontare che cosa accade, nelle zone di guerra, a coro che dovrebbero aiutare le persone in difficoltà sotto il profilo psichico, ma che a loro volta devono fare i conti con un’esperienza traumatica difficile da gestire. Due psicanalisti di Kharkiv, oggi in esilio forzato, parlano di se stessi e dei pazienti che ancora seguono a distanza.

Mykhaylo Suslov ha 61 anni e una grande esperienza sul campo. Si è formato quando ancora viveva nell’allora Unione Sovietica, dove eri costretto ad applicare i metodi in voga sotto il regime, se non volevi finire in carcere come dissidente. Da lì la scelta di studiare in Germania, per poi rientrare in patria nel 1991. Ksenia Zaitzeva ha 36 anni ed è un’allieva di Suslov: è una “candidata”, cioè sta completando il percorso per potersi fregiare del titolo di “associata”. Anche lei non conserva buoni ricordi dei tempi dell’Urss.

Come può uno psicanalista aiutare gli altri in un momento in cui deve pensare innanzi tutto a se stesso e ai suoi cari? «In effetti, ogni uomo può sopportare carichi del genere sino a un certo punto», premette Suslov. «Non a caso, ho dovuto ridurre il numero di pazienti da seguire, e non solo per gli evidenti problemi logistici: ora sono ospitato da alcuni miei amici a Mainz, in Germania. In queste settimane sto lavorando soltanto con le persone che lamentano una crisi acuta. La maggior parte dei miei pazienti, in questo momento, non si trova in condizioni di sufficiente sicurezza per poter svolgere i trattamenti. Questo è un requisito fondamentale. In situazioni di estremo pericolo, bisogna fare come quando c’è un’emergenza in un aereo ad alta quota: prima devi indossare la tua maschera dell’ossigeno, poi puoi aiutare le persone in difficoltà. Bisogna tenere conto della rapidità con cui la situazione sta cambiando, andando a toccare le cose a noi più care, come gli affetti e la casa. Io non so se la mia sia ancora in piedi oppure se sia stata distrutta dai bombardamenti. Sono stati violati i confini di base delle persone. Come dice Freud, in questi casi dobbiamo andare a toccare gli istinti più semplici e fondamentali dell’essere umano».

Il dottor Suslov spiega che «ognuno di noi, in questa fase, vive dentro un incubo. La realtà non è stata ancora elaborata sufficientemente. Certo, ci conforta vedere l’atteggiamento di buona parte dei Paesi del mondo nei nostri confronti, ma credo che ci sia bisogno di maggiore consapevolezza. Mi ha colpito moltissimo, come uomo e come professionista, vedere quanto le persone utilizzino un certo diniego per mantenere un soddisfacente senso di sicurezza. Mi spiego meglio: la mia città, Kharkiv, è stata bombardata in maniera massiccia, eppure molti miei concittadini si comportavano come se quella tragedia non fosse accaduta, se non si fosse consumata vicino alla loro casa. Un meccanismo di autodifesa molto complesso. In alcuni quartieri della città continuavano a vivere normalmente. Lo stesso ho riscontrato non appena sono scappato con la mia famiglia e, passando in altre città, la gente pensava che ciò che era accaduto a Kharkiv non fosse possibile per loro. Questo tipo di percezione si espande negli altri Paesi europei, anche grazie alla propaganda russa. Vi confesso che, nonostante in passato l’Ucraina abbia vissuto altre invasioni da parte della Russia, non avrei mai immaginato che potesse ripetersi in questo momento».

Kharkiv, peraltro, è una città simbolo: c’è un grande ponte con un monumento alla Memoria, realizzato per suggellare l’amicizia tra i due popoli. «C’è una grande percentuale di cittadini russi, da noi», spiega Suslov, «e questo è sempre stato motivo di grande e reciproco arricchimento culturale. Non a caso, la strada principale, una delle più belle, è stata dedicata al grande poeta e scrittore russo Aleksandr Sergeevič Puškin. E pure una delle stazioni della metropolitana. Alcuni pazienti, che si sono rifugiati lì sotto con i bambini durante i bombardamenti, erano disorientati da questo fatto, non riuscivano a comprenderlo e ad accettarlo. Una confusione terribile che ha lasciato nel loro intimo un senso di assurdo. Ci saranno certamente enormi ripercussioni in queste persone, che si protrarranno per anni. Il lavoro di gruppo le potrà aiutare, ma non sarà facile. Anche per me, in questo momento, è difficile accettare la compassione dei miei colleghi russi. Oggi li vedo quasi come dei nemici. Ci vorrà del tempo, per tutti, per elaborare certi sentimenti. A caldo non è possibile. Io stesso sto cercando di reagire nel miglior modo possibile, e in questo mi aiuta la presenza di buona parte della mia famiglia e sapere che molti miei pazienti sono in salvo in altri Paesi. Stiamo cercando di sostenerci tra di noi. Siamo fragili. Sono un uomo anche io, con tutti i miei limiti, e ci sono delle difese psichiche in atto che vanno rispettate: ci deve essere permessa anche una certa aggressività».

Ksenia Zaitzeva ha trovato rifugio a Klagenfurt, in Austria, insieme alla sua bimba di pochi mesi: le ospita una sua amica, che vive lì da una ventina d’anni. Suo marito è dovuto restare in Ucraina perché, pur non essendo impiegato in prima linea, è nella cosiddetta riserva, a disposizione. «Non ha esperienza di combattimento ma non può lasciare il Paese perché non ha l’età del dottor Suslov», ci spiega lei. «È un momento di grande sofferenza perché, da piccola, ho vissuto un altro trauma legato all’invasione russa. Inoltre, i miei genitori, i miei suoceri e mia sorella vivono in Russia e ci accusano di essere vittime dalla propaganda del nostro governo. Ci dicono che siamo bugiardi e filonazisti. Insomma, mi trovo tra due fuochi. Per mio marito è ancora più difficile: i suoi genitori vorrebbero che mi lasciasse al mio destino. Io, nel mio piccolo, cerco di sdoppiarmi tra i doveri di mamma e l’aiuto che posso dare ai miei pazienti, ma oggi non è facile far parte di una famiglia mista. Eppure sono di etnia russa, ho vissuto in quel Paese sino a quando avevo 11 anni».

Ksenia sottolinea il fatto che «in Russia sono molto influenzati da ciò che riportano le tivù. Sono convinti di essere circondati da Paesi ostili, ma questo non è vero. Sono paranoici, non c’è possibilità di dialogo e confronto sereno. Anche se so bene che, in Ucraina come in altre parti del mondo, ci sono gruppi neonazisti o fascisti, ma si tratta di una minoranza ristretta. Spero che presto si arrivi a un accordo di pace, mi piacerebbe tornare a casa mia ma, in verità, non so se ci saranno più le condizioni per vivere serenamente. Sono una donna libera e ho bisogno di libertà per me e mia figlia. Non voglio fare la fine di mia sorella, che vive in un Paese che non è davvero libero. Se i russi dovessero occupare l’Ucraina, non rimetterò più piede da quelle parti, anche se avrò il cuore a pezzi».


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