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Zamagni: «Il salto necessario da pacifisti a pacificatori»

Uno stralcio dell'editoriale dell'economista presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali che partecipa al dibattito #pacifismoannozero e apre il numero di VITA magazine di aprile: « La pace va costruita, posto che essa non è qualcosa che spontaneamente si realizza a prescindere dalla volontà degli uomini. Se dunque si vuole veramente la pace, quanto occorre fare è di operare per estendere ovunque la cultura e la prassi del principio democratico»

di Stefano Zamagni

Quale il nesso tra quanto sta tragicamente accadendo in Ucraina e l’istanza pacifista? Che fare, nelle attuali condizioni, se si vuole essere pacificatori? Il pacifismo tradizionale del XX secolo noto come pacifismo di testimonianza oggi non è in grado, da solo, di far avanzare la causa della pace. Esso continuerà ad essere un’opzione della coscienza individuale, degna della massima tutela giuridica e della più ampia considerazione sociale; ma il mantenimento della pace in terra esige, nelle attuali condizioni storiche, molto di più. E ciò per due ragioni fondamentali. La prima è esterna al pacifismo: sono mutate sia le cause sia la natura della guerra, come ben si sa. Giovanni Paolo II è stato fra i primi a comprendere questo fatto. Nel suo primo Angelus del 2002, il Papa disse: «Forze negative, guidate da interessi perversi, mirano a fare del mondo un teatro di guerra” (corsivo aggiunto). Parole inquietanti che sanno non solo di profezia, ma soprattutto di atto d’accusa politica. La guerra continua a rimanere un’opzione possibile nelle agende politiche. Con il che, il destino economico e sociale dei singoli Paesi e popoli continua ad essere ignorato e trattato strumentalmente.

La seconda ragione riguarda, invece, lo stesso pacifismo di testimonianza, il quale è oggi afflitto da una sorta di paradosso: da una parte, ha bisogno della guerra per rivendicare la pace; dall’altra, reagisce molto tiepidamente (fino ad ignorarle) a quella miriade di conflitti che coinvolgono popoli “marginali”, ma che sono poi quelli che preparano la via alla guerra guerreggiata. La guerra in sé non viene chiamata in causa, ma vengono denunciate le singole guerre, di cui si va alla ricerca delle cause “locali”. Come ha scritto Mario Albertini (1984), il pacifismo di testimonianza coltiva «il sogno di eliminare la guerra senza distruggere il mondo della guerra». E un primo intervento in tale direzione è quello di rivedere radicalmente le regole del mercato globale delle armi. (La Russia è il secondo esportatore al mondo di armamenti, dopo gli Usa. Il Trattato sul commercio di armi convenzionali, mentre è stato ratificato dalla Ue, non è stato firmato da Usa, Russia e Cina. Ancora più preoccupante è la mancata revisione del Trattato di non proliferazione nucleare). Ecco perché è urgente muovere passi veloci verso un nuovo pacifismo, quello che chiamo istituzionale ed il cui slogan potrebbe essere: se vuoi la pace prepara istituzioni di pace (vale a dire, si vis pacem, para civitatem).

Cosa vuol dire essere costruttori di pace («Beati gli operatori di pace» Mt.5,9) nelle odierne condizioni storiche? Significa prendere finalmente sul serio la proposizione della Populorum Progressio (1967) secondo cui «lo sviluppo è il nuovo della pace»

Cosa vuol dire essere costruttori di pace («Beati gli operatori di pace» Mt.5,9) nelle odierne condizioni storiche? Significa prendere finalmente sul serio la proposizione della Populorum Progressio (1967) secondo cui «lo sviluppo è il nuovo della pace».


Tre sono le tesi che valgono a conferire a tale affermazione tutta la sua forza profetica. Primo, la pace è possibile, dato che la guerra è un evento e non già uno stato di cose. Il che significa che la guerra è un’emergenza transitoria, per quanto lunga possa essere, non una condizione permanente della società degli umani. E dunque non hanno ragione i “realisti politici” secondo cui, nell’arena internazionale, conta solo la forza e il calcolo degli interessi in gioco, dal momento che la guerra sarebbe comunque inevitabile, stante l’icastica affermazione hobbesiana dell’homo homini lupus.

La seconda tesi afferma che la pace però va costruita, posto che essa non è qualcosa che spontaneamente si realizza a prescindere dalla volontà degli uomini. In un libro di grande rilevanza – e proprio per questo mai citato – di Quincy Wright (A study of war, 1942) si legge che «mai due democrazie si sono fatte la guerra». È proprio così, come la storia ci conferma. Se dunque si vuole veramente la pace, quanto occorre fare è di operare per estendere ovunque la cultura e la prassi del principio democratico.

La terza tesi, infine, afferma che la pace è frutto di opere tese a creare istituzioni, (cioè regole del gioco), di pace: quelle che appunto mirano a realizzare uno sviluppo umano integrale. (Sempre tenendo a mente che la pace va costruita con mezzi di pace)….PER CONTINUARE A LEGGERE ACQUISTA O ABBONATI A VITA MAGAZINE


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