Cooperazione & Relazioni internazionali

Le ragazze afghane, clandestine a scuola

Il 23 marzo in Afghanistan le ragazze sono tornate a scuola insieme ai loro compagni maschi, ma dopo due ore sono state rimandate a casa. È proibito organizzare anche corsi domestici, in un paese in cui l'analfabetismo femminile è all'87%. Così sono nate, coraggiosamente, delle scuole clandestine che il Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane sta sostenendo. Gabriella Gagliardo: «Serve fare sentire a queste ragazze che non sono sole. Vorremmo incoraggiarle a continuare a lottare e a sperare»

di Fabio Ruta

Il 23 marzo le studentesse afghane avrebbero dovuto riprendere le lezioni, come i coetanei maschi. Ma dopo un paio d’ore dalla ripresa delle lezioni, è arrivato l’ordine di rimandare tutte le studentesse a casa. L’apertura che i talebani avevano annunciato è stata precipitosamente smentita. Nessuna giovane donna di età superiore ai 12 anni ha ora diritto allo studio in Afghanistan ed è espressamente proibito organizzare corsi domestici: scuole clandestine che invece continuano ad esistere, seppur con grave rischio e purtroppo accessibili a poche ragazze. «Abbiamo visto la disperazione di tante ragazze costrette ad abbandonare le lezioni che si erano illuse di riprendere, e ci è sembrato utile allora chiedere agli studenti italiani di inviare loro messaggi di solidarietà, anche solo per far sentire loro che non sono sole, che qualcuno si accorge di cosa sta succedendo in quel paese. Vorremmo incoraggiarle a continuare a lottare e a sperare, siamo preoccupate della depressione che ci dicono stia devastando una generazione. Non si possono abbandonare milioni di ragazze in questa condizione». È accorato l’appello di Gabriella Gagliardo, presidente del Cisda-Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, una onlus registrata nel 2004 per consentire alla rete di solidarietà attiva dal 1999 di gestire i progetti di supporto alle organizzazioni afghane di donne con cui la rete aveva consolidato un rapporto di scambio continuativo. Il Cisda ha lanciato la campagna “We support girls back to school!”, per esprimere solidarietà e amicizia alle studentesse e alle insegnanti afghane: come organizzazione continua a sostenere i progetti delle scuole segrete dove queste ragazze potranno proseguire gli studi e prepararsi a cambiare il loro paese, mentre ai giovani italiani chiede di inviare una foto o un breve video di supporto.

Il Cisda raccoglie singole attiviste ed esponenti di diverse associazioni impegnate anche su altre tematiche e aree, ma che avevano in comune l’esperienza di un rapporto diretto con donne afghane appartenenti a Rawa (Revolutionary Association Of Women of Afghanistan). Le donne che hanno dato vita al Cisda sentivano l’esigenza di coordinarsi per mantenere attivo lo scambio con quella sorprendente associazione femminista, Rawa, che riusciva ad agire efficacemente persino in condizioni estreme come quelle imposte dal misogino e fondamentalista regime talebano.

Gabriella, quali sono le principali attività che proponete?
Negli anni il Cisda si è impegnato molto nella controinformazione, ad esempio attraverso le nostre delegazioni che almeno una o due volte all’anno si recavano in Afghanistan per raccogliere documentazione sul campo, visitando i progetti e partecipando a incontri con le persone coinvolte. Con la stessa frequenza accoglievamo in Italia le delegate afghane, per portare direttamente la loro voce in incontri politici, culturali e di sensibilizzazione umanitaria presso le città e gli ambienti dove le rispettive associazioni di riferimento erano presenti: quartieri, biblioteche, scuole, movimenti, istituzioni locali e talvolta nazionali, sindacati e partiti. Il sito www.osservatorioafghanistan.org ha svolto e svolge ancora in parte questa funzione, pubblicando articoli tradotti da diverse testate, soprattutto raccogliendo fonti che non trovano spazio nei media più diffusi. Un secondo sito, www.cisda.it, ci ha permesso di aggiornare regolarmente sulle organizzazioni afghane che abbiamo incontrato e che abbiamo scelto di finanziare attraverso il sostegno ai loro progetti umanitari: scuole e corsi clandestini, interventi sanitari di base, orfanotrofi, una casa-rifugio per donne sfuggite a gravi violenze e centri di assistenza legale, piccole attività generatrici di reddito come la produzione dello zafferano, le capre, la sartoria, eccetera.

Il nostro lavoro di raccolta fondi per i progetti è sempre stato strettamente associato a un accompagnamento dei percorsi di consapevolezza e riscatto relativi ai meccanismi di oppressione, a livello psico-sociale e culturale ma anche storico e politico, e all’interrogarci rispetto alle dinamiche internazionali, una ricerca che abbiamo avuto il privilegio di condividere alla pari con le nostre partner afghane. Ci siamo riconosciute reciprocamente sempre più profondamente connesse all’interno di uno stesso sistema globale di oppressione, pur collocandoci in luoghi apparentemente lontani e ben diversi. E abbiamo potuto toccare con mano come la lotta per i diritti universali, spesso a loro negati totalmente, fosse drammaticamente necessaria anche a noi per rendere effettivi quegli stessi diritti che anche nel nostro territorio vediamo così spesso e gravemente preclusi a molte donne, come anche ad altre categorie di persone, ad esempio i migranti. Ci siamo accorte che senza una lotta costante e radicale, tutte le conquiste delle generazioni precedenti sono a rischio di venire spazzate via anche qui da noi, proprio come è accaduto sotto i nostri occhi lo scorso agosto in Afghanistan con i fragili passi avanti realizzati negli ultimi 20 anni rispetto ai diritti delle donne.

Qual è oggi la situazione rispetto al diritto allo studio delle donne afghane?
Negli ultimi 20 anni l’Occidente ha propagandato l’accesso all’istruzione per le ragazze afghane come un proprio successo, un risultato dell’occupazione militare Nato che avrebbe dovuto liberare le donne afghane dal regime oscurantista dei talebani. Purtroppo le cose non stavano così: l’analfabetismo femminile, prima del ritorno dei talebani al potere, era ancora dell’87%, un dato sconcertante specie considerando che l’occupazione Nato è costata complessivamente ben mille miliardi di dollari. La possibilità di studiare ha riguardato solo una esigua minoranza. E questo benché, come abbiamo potuto constatare ininterrottamente in 20 anni, il desiderio di studiare fosse radicatissimo tra le donne, persino nelle condizioni di estrema miseria nei campi di sfollati interni, tanto che l’alfabetizzazione è rimasta sempre la priorità nell’azione di Rawa e delle associazioni afghane con cui abbiamo avuto rapporti.

Adesso però, con il ritorno al potere dei talebani, anche quei minimi spazi di emancipazione attraverso lo studio che si erano aperti almeno nelle principali città, si sono richiusi brutalmente per le donne. Oltre la classe sesta le bambine non sono ammesse a scuola. Il 23 marzo scorso avrebbero dovuto riprendere le lezioni, ma dopo un paio d’ore è arrivato l’ordine di rimandare tutte le studentesse a casa. L’apertura che i talebani avevano annunciato, probabilmente allo scopo di mostrare una facciata più presentabile alla comunità internazionale per ottenere fondi e riconoscimento diplomatico, è stata precipitosamente smentita.

Anche prima del ritorno dei talebani al potere, in Afghanistan l’analfabetismo femminile era ancora dell’87%, un dato sconcertante. La possibilità di studiare ha riguardato solo una esigua minoranza. E questo benché, come abbiamo potuto constatare ininterrottamente in 20 anni, il desiderio di studiare fosse radicatissimo tra le donne. Il 23 marzo scorso avrebbero dovuto riprendere le lezioni, ma dopo un paio d’ore è arrivato l’ordine di rimandare tutte le studentesse a casa. L’apertura che i talebani avevano annunciato è stata precipitosamente smentita

Gabriella Gagliardo, presidente del Cisda

La guerra in Ucraina ha distolto ulteriormente l’attenzione da quanto accade in Afghanistan e le misure repressive si sono molto inasprite, specie contro le donne che hanno continuato a manifestare e a violare gli assurdi divieti che impediscono la sopravvivenza fisica di intere famiglie. Ci sono stati rastrellamenti e perquisizioni notturne e diverse donne, lontane dai riflettori della stampa o semplicemente da possibili foto di cellulari privati che potrebbero rimbalzare sui social, sono state sequestrate mentre si trovavano in casa propria. Tutte le donne sono comunque sempre recluse nella propria casa, come è noto possono uscire solo accompagnate da un uomo della famiglia ed è sempre pericoloso farlo, ed è espressamente proibito organizzare corsi domestici. Scuole clandestine che, invece, continuano ad esistere, ma con grave rischio e purtroppo accessibili a poche.

Abbiamo visto la disperazione di tante ragazze costrette ad abbandonare le lezioni che si erano illuse di riprendere, e ci è sembrato utile trovare un modo per parlare direttamente a queste studentesse, chiedendo agli studenti italiani di inviare loro messaggi di solidarietà.

Così è nata la campagna, Gabriella?
Sì, con questo spirito. Anche solo per far sentire a queste ragazze e alle loro insegnanti che non sono sole, che qualcuno si accorge di cosa sta succedendo in Afghanistan. Vorremmo incoraggiarle a continuare a lottare e a sperare, siamo preoccupate della depressione che ci dicono stia devastando una generazione. Non si possono abbandonare milioni di ragazze in questa condizione, rispetto alla quale il nostro paese intervenendo militarmente per 20 anni si è assunto gravi responsabilità. Gli accordi che hanno insediato al potere per 20 anni governi corrotti e fondamentalisti, e che hanno poi riportato i talebani al potere, sono stati negoziati senza la trasparenza e il coinvolgimento democratico della popolazione: di quella afghana in primo luogo, ma anche della nostra, che per 20 anni ha sostenuto con le proprie tasse una guerra di cui non ha capito affatto motivazioni, obiettivi, esiti.

Cosa si può fare concretamente, dall’Italia, per sostenere i diritti umani e civili della popolazione afghana oggi sottoposta al dominio dei talebani, con particolare riferimento ai bisogni educativi dell’infanzia, ai processi di crescita ed evolutivi?
A nostro avviso la cosa migliore che si possa fare, qui in Italia, è non smettere di chiederci e di chiedere alle autorità responsabili come sia possibile che stia succedendo quello che sta succedendo. Quello che vogliamo per le studentesse, cioè la possibilità di studiare, di acquisire gli strumenti per comprendere la realtà e diventare cittadine attive, prendere in mano il proprio destino, personale e collettivo, noi lo vogliamo per le ragazze afghane esattamente come per le giovani e i giovani del nostro paese. Anche qui abbiamo bisogno di capire, autodeterminarci e assumere responsabilità. Vogliamo che gli studenti italiani colgano questa occasione di incontro con le ragazze afghane disposte a lottare per il diritto allo studio, e si facciano finalmente qualche domanda sul proprio diritto allo studio e sulla propria formazione. Cercare uno scambio alla pari con le studentesse afghane che resistono, vuol dire far crollare una serie infinita di stereotipi. Concretamente, si può scegliere poi di raccogliere fondi per sostenere i corsi clandestini, ma la cosa più importante è mantenersi aggiornati e affrontare la dura fatica di studiare a fondo i contesti economici, sociali, politici, culturali, la storia. Non accontentarsi degli slogan e della propaganda, confrontare diverse fonti. Difendere i propri diritti qui e ora, e battersi perché siano affermati come diritti universali, nel nostro mondo globalizzato e interdipendente.

Abbiamo visto la disperazione di tante ragazze costrette ad abbandonare le lezioni che si erano illuse di riprendere, e ci è sembrato utile trovare un modo per parlare direttamente a queste studentesse, chiedendo agli studenti italiani di inviare loro messaggi di solidarietà. Vogliamo che gli studenti italiani colgano questa occasione di incontro con le ragazze afghane disposte a lottare per il diritto allo studio e si facciano qualche domanda sul proprio diritto allo studio e sulla propria formazione.

Gabriella Gagliardo, presidente del Cisda

Esiste, tra le donne afghane, una spinta verso la affermazione del pluralismo religioso e del rispetto della laicità delle istituzioni?
Sì, assolutamente. La laicità dello stato è una rivendicazione fondamentale per Rawa e un elemento essenziale per tutte le associazioni con cui abbiamo avuto rapporti. Loro dicono che sulla laicità, il rifiuto totale del fondamentalismo, la democrazia, non si può negoziare: sono presupposti irrinunciabili. Rawa lo dice e lo scrive nei suoi documenti da oltre quarant’anni. Peccato che le forze democratiche che hanno sostenuto queste posizioni in questi decenni siano state sistematicamente perseguitate e ignorate e non abbiano mai ottenuto l’appoggio dei governi occidentali, disposti piuttosto a perseguire i propri interessi finanziando, armando e sostenendo gruppi fondamentalisti loro temporaneamente alleati.

Non solo Rawa ha sempre sostenuto la libertà religiosa, ma anche il partito della Solidarietà (Hambastagi), l’unico partito democratico che era riuscito a registrarsi durante l’occupazione Nato, mettendo a rischio la vita dei propri esponenti in 20 anni di attentati fino a rinunciare a concorrere alle elezioni, a causa dei brogli e della violenza. Il rispetto delle diverse confessioni religiose ci è stato testimoniato anche dalle diverse Ong con cui il Cisda ha collaborato: Hawca, Opawc, Saajs, Afceco, tutte orientate in modo programmatico a favorire la collaborazione e la mescolanza tra le diverse etnie intorno agli obiettivi comuni e alla difesa dei gruppi più facilmente fatti oggetto di discriminazione e violenza, come gli hazara che sono sciiti, o i buddisti e altre minoranze. Per queste associazioni afghane è evidente l’uso strumentale delle divisioni etniche e religiose a scopo di potere, come è evidente la possibilità di una convivenza pacifica, la cui esperienza fa parte della lunga storia dell’Afghanistan. Soprattutto, oggi, il secolarismo e la libertà di coscienza sono costitutive della loro stessa identità come associazioni multietniche e laiche. Grazie a loro, visitando i loro piccoli progetti, in questi anni abbiamo potuto vedere con grande stupore con i nostri occhi, nelle città, nei villaggi sperduti, nei campi profughi, che persino le donne più povere e analfabete non credono affatto alla legittimità della violenza fondamentalista. Quella non è la loro fede, i talebani e gli altri fondamentalisti non dominano la coscienza delle donne.

Foto di Carla Dazzi


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