Welfare & Lavoro

Social workers: sono loro i nuovi proletari?

Sono stati la colonna portante che ha tenuto in piedi l’Italia. Eppure la sofferenza economica e reputazionale dei lavoratori del sociale non è mai stata così alta. A loro è dedicato il numero di maggio di Vita

di Sara De Carli

Ci sono educatori che fanno la notte in comunità, ma senza essere pagati: la retribuzione scatta solo se succede qualcosa che li obbliga a intervenire. Si chiama “notte passiva”: se tutto fila liscio, è come se (sigh!) l’educatore avesse dormito a casa sua. Ci sono educatori a cui gli straordinari vengono messi in banca ore: dal momento che chiedere recuperi è impossibile perché mancano colleghi, si sa a priori che decadono. Ci sono operatori sociali che girano le città di casa in casa, due ore di qua, un’ora di là: hanno sei ore pagate, ma sono stati in giro nove. Altri che hanno un weekend libero ogni sei settimane: se piove, spiegalo tu a tua moglie e ai tuoi figli che se ne riparla tra un mese e mezzo. Ci sono lavoratori sociali che escono dal lavoro con un braccio rotto, che fronteggiano utenti che sfondano scrivanie e porte, persino quelle che rischiano di essere abusate. Quanto vale tutto questo? Economicamente, non più di 1.200 euro al mese, che possono salire a 1.600 a fine carriera. Il livello del riconoscimento sociale? Ancora più basso.

La sofferenza dei lavoratori

Claudio ha 32 anni e una bimba di tre. Ha una laurea, è iscritto all’albo degli educatori sociosanitari e lavora in una residenza sanitaria per disabili del nord Italia, gestita da una fondazione. Prende 1.200 euro al mese per 38 ore settimanali. Per arrotondare qualche volta dà una mano in una comunità per minori, così come altri colleghi fanno i pizzaioli o i meccanici.

«Mia moglie ha un part time a 900 euro, sempre nel sociale: ci siamo già detti che un secondo figlio non ce lo possiamo permettere. Ho anche un master, ma in questo settore fare carriera significa prendersi più responsabilità per pochi soldi in più», dice. La retribuzione è solo una parte del problema: «Siamo sempre in emergenza di personale, al fianco di persone che richiedono grandissime attenzioni. Fino a che età puoi gestire situazioni del genere? A un certo punto fai un passo indietro. Ma anche da giovani, pesa il fatto che la tua vita privata passi sempre in secondo piano. Nessuno ci valorizza, non arriva mai un “bravo” né una proposta che mi permetta di credere nel mio lavoro quanto vorrei», racconta.

Anche Paola fa l’educatrice: ha 48 anni e affianca le mamme che si sperimentano nella semi-autonomia per una fondazione milanese. Alla laurea in Scienze politiche ha aggiunto il corso da 60 Cfu per diventare educatore sociopedagogico e ora studia da assistente sociale specialista. Il suo contratto è di 38 ore settimanali, per 1.600 euro al mese. «Non so quante volte il telefono squilla la sera o la domenica. Le mamme chiamano a qualsiasi ora, per qualsiasi cosa, è totalizzante. Io sono stata da sola da settembre a marzo con dieci mamme, persone con storie complicatissime, con mille fragilità. Tante volte vedi che non ce la fanno ed è frustrante perché vorresti aiutarle a tutti i costi. Così ti porti a casa i mal di pancia: avrò fatto bene a dirle così, perché lei mi ha risposto cosà? E quando scrivi una relazione, avverti tutta la responsabilità. È complicato, anche per chi ti vive accanto. Sarà un caso, ma su dieci colleghe dai 25 ai 48 anni, nessuna è mamma».

Martina invece è assistente sociale. Ha iniziato in un piccolo comune della provincia ligure, ma dal 2014 è entrata nell’area progettazione di una grande associazione che si occupa di disabilità, con una partita Iva che mediamente le permette di portare a casa 1.300 euro al mese. Con una cooperativa sociale invece ha un contratto part time a tempo indeterminato: 15 ore settimanali per 500 euro al mese. Ha 37 anni e non ha famiglia. «Lavorare su progetti implica non avere certezze a livello di tempi e di entrate, ma soprattutto il know how accumulato si perde, ogni volta devi ricominciare daccapo in un altro ambito», dice. Eppure il non profit, con le sue debolezze, lo preferisce: «Fare l’assistente sociale nel pubblico, sempre e solo a contatto con l’utenza, è frustrante. Ti senti sempre inadeguato perché sai già che le risposte che offri non possono risolvere il problema», spiega. «La flessibilità del non profit invece permette di cercare le risposte giuste, di mettere in campo nuovi modelli».

La sofferenza degli enti gestori

Non c’è una parte forte nel dramma che si sta srotoloando in questi mesi, non c’è una controparte che vince là dove l’altra perde. Il dramma è bifronte. «Sono la prima a dire che un educatore dovrebbe guadagnare di più, ma oggi – anzi, da anni – le rette che ci vengono riconosciute dalla non corrispondono alla sostenibilità del servizio», dice Liviana Marelli, presidente di La Grande Casa. Un giorno in una comunità educativa costa 110/120 euro mentre le rette, che variano da comune a comune, sono più vicine ai 90 euro che ai 100. Se all’insostenibilità economica si aggiunge la difficoltà di trovare professionisti, ecco che le comunità chiudono: «Ma questa non è una soluzione, perché quei ragazzi cosa fanno?». È un paradossale cul de sac.

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In foto, Luca Della Latta, assistente personale di Francesca Benedetti, giovane con Sma. È una delle storie che raccontano il bello del lavoro sociale, nonostante tutto


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