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Addio a Canevaro, l’educatore che sapeva vedere quello che chi cresce sarà

È morto oggi a 82 anni Andrea Canevaro, padre della pedagogia speciale e dell'inclusione. Un ritratto con le parole delle sue interviste e con il ricordo di Patrizia Ceccarani, Direttore Tecnico-Scientifico della Lega del Filo d’Oro, che negli anni '70 si laureò con lui a Bologna

di Sara De Carli

«Ricco di umanità, sensibile, un uomo che amava il suo lavoro. Di più, un uomo che ha sempre creduto nella persona con disabilità. Parlava di inclusione ed era lui stesso l'inclusione, aveva un carattere accogliente, sempre, con tutti: non poteva andare diversamente». Patrizia Ceccarani, Direttore Tecnico-Scientifico della Lega del Filo d’Oro, ricorda così Andrea Canevaro.

Canevaro è mancato oggi, all’età di 82 anni: pedagogista e professore emerito dell'Università di Bologna, è il padre della pedagogia speciale in Italia e uno dei primi a credere nell’integrazione scolastica. Un uomo coerente, ha detto nel suo video-messaggio il prof Dario Ianes. Aggettivo azzeccato, basti pensare per esempio che nel 2008 Canevaro, insieme a Ianes, all'epoca dei tagli della ministra Gelmini si dimise dall'Osservatorio per l'integrazione scolastica del ministero con queste parole: «A chi deve guardare e a chi deve rispondere chi educa e si educa? A un ministro o a chi cresce? A chi cresce. E deve farlo guardando oltre, avanti, cioè non fermandosi a quello che ora vede, non a quello che chi cresce è; ma aprendosi al domani, a ciò che sarà. È la dimensione "profetica" (don Lorenzo Milani) propria dell'educazione».

Ceccarani è stata una sua studentessa a Bologna e ha fatto con lui una tesi sperimentale proprio sulla Lega del Filo d’Oro, nel 1974/75: «Mi disse “Patrizia, non mi chiedere bibliografia o altro, sai bene che non c’è nulla. Ma se la vuoi fare, io te la accolgo e ti seguo”», ricorda. «Lui è stato davvero una guida per chiunque si sia interessato di pedagogia speciale, per chi lavora su educazione e disabilità. Il punto è che avviando la pedagogia speciale lui non ha voluto creare un recinto, mettere un’etichetta: ha sempre visto le persone come persone. La sua è una pedagogia molto umanistica e anche il suo appropccio scientifico non si esauriva nella raccolta di dati o di aspetti tecnici: ha sempre messo la persona al centro, anche quando questa espressione non si usava. Il suo è sempre stato un discorso di inclusione da sempre e ha lottato tanto per l’integrazione prima e l’inclusione poi. Per questo tutti si sentivano attratti da lui».

Nel modello educativo-riabilitativo della Lega del Filo d’Oro, che punta sulle abilità residue delle persone, che crede che nessuna disabilità sia tanto grave da impedire un percorso che porti qualche piccolo miglioramento in termini di benessere, autonomia, autodeterminazione, qualità di vita, che non si ferma davanti ai limiti imposti dal non vedere e non sentire, che guarda oltre ciò che le persone possono fare oggi per intravedere ciò che potranno fare domani…. cosa c'è del professor Canevaro? «Nel modello pedagogico della lega del Filo d’Oro abbiamo preso spunti da tanti autori, il tema degli obiettivi per esempio viene più da altri, Canevaro era più un filosofo che un tecnico. Ma certamente in lui ho visto la forza del programmare, del mettere sempre al centro la persona e di credere sempre in un’inclusione possibile».

Nell'ultima intervista a Vita, Canevaro ricordava che «dal mio lungo lavoro con le persone con disabilità ho tratto una scaletta di parole, che riguardano tutti: inserimento, integrazione, inclusione. Penso abbiano molto da dire. L’inserimento è il venire al mondo, l’entrare in un mondo che c’era già, il non pensare che io devo inventare la lingua del mondo, io faccio parte di un mondo che già esiste. Poi c’è l’integrazione, io mi integro facendo un doppio lavoro di adattamento: mio all’ambiente e dell’ambiente a me. A un certo punto però devo immaginare ciò che c’è oltre, uscire, ed è l’inclusione». Ci confidava che «dal 2008, quando ho avuto una emorragia cerebrale, metto ogni anno una parola al centro delle mie riflessioni: quest’anno è operosità. Per me la comunità educante è mettere in moto le operosità, vuol dire riconoscere che ognuno ha qualcosa in cui è capace e allo stesso tempo che nessuno può bastare a se stesso. Ognuno può essere operoso a suo modo, mettere in moto qualcosa che può servire ad altri. Questo è lo scopo principale della comunità educante, non far vivere nessuno in una posizione assistenziale, uscire dalla logica di chi ha e chi non ha, chi ha sapienza e chi è sciocco, chi è bene educato e chi è maleducato». E indicava una strada, quella dei progetti condivisi, «dove la parola importante è “condiviso”, non “progetto”. Progetti che vadano non a rompere i legami con gli altri ma a rinforzarli. Ricordando sempre che l’aspetto educativo è importante ma non deve mai diventare qualcosa che fa scappare: chiunque scapperebbe da quelli che “vogliamo insegnarti a vivere”! No, nessuno vuole insegnarti a vivere, impariamo insieme a vivere».

Addio, prof, ci manca già.


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