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Propaganda elettorale: tutte le parole sbagliate della politica

Un esperto di comunicazione ci guida nella lettura puntuta delle campagne dei maggiori partiti in corsa in vista delle elezioni del 25 settembre. Dal "Scegli" lettiano al "Credo" salviniano passando per il"Pronti" di Giorgia Meloni per arrivare al duo Calenda-Renzi, Berlusconi, Bonino, Cinquestelle e Di Maio chi merita il voto più alto (o meglio: quello meno basso)?

di Doriano Zurlo

Per fortuna esiste l’Internet. Altrimenti non mi avventurerei in quella terra di nequizie dalla quale germogliano gli slogan della propaganda elettorale. Di questi, oltretutto, si è già parlato in lungo e in largo, con dovizia e qualche saccenza. Che altro potrei aggiungere? Ma esiste l’Internet, appunto, che regala una messe di malinconie e un pulviscolo di orrori. Roba da far bollire la testa, fremere la pancia, imbizzarrire la penna. Prendi i meme. Di meme ne abbiamo le tasche piene. La loro reiterazione aggiunge angoscia, anziché levarla. Il mondo è in fiamme ogni giorno di più. L’autunno arriva con i rincari pronti a frantumare ogni record. La nostra vicina di casa è pazza d’amore per Putin! E noi ci consoliamo perculando le pochezze elettorali che conseguono alla crisi di governo più sconsiderata di sempre… quelle tristesse, mon ami!

Ma dietro l’estenuante rincorsa alla crassa risata, si nascondono anche gioie sottili. Eccone una: leggo post di professori universitari che si chiedono, proprio a proposito dei meme che fioriscono nella coltura elettorale del PD (Scegli: pizza con ananas/piadina con squacquerone… eccetera) se tutto ciò non sia stato voluto! Ovvero se non faccia parte di una precisa e sagace strategia di comunicazione! Quei geni della réclame – che si sa, son tutti a sinistra – avrebbero messo in campo un irresistibile “purché se ne parli”! No, signori professori, no. Le cose non stanno in questo modo. Quella che è stata messa in campo è solo incompetenza. “Purché se ne parli” è una cazzata. La comunicazione è cosa più seria di così. (Lapidaria considerazione a margine: chi è vittima di meme, se lo merita).

C’è un problema a monte, che è pre-partitico, pre-elettorale, pre-tutto. In Italia – nel pubblico molto più che nel privato – si pensa che comunicare significhi “imbonire”. Ci sono professionisti preparati nel nostro Paese? Persone con grandi riconoscimenti internazionali e un portfolio di campagne di successo? Sì, ci sono. Perché la politica non chiama loro? Quando va bene, la politica si affida a un regista famoso, che mediamente fa una marchetta. Quando non va bene, chiama gli imbonitori. Amici o parenti, possibilmente. Espertucoli, maghi dello spulcio dei dati, alfieri del marketing in pillole; leggono statistiche e seguono regolette da quinta elementare. Vi svelo un segreto. Lo sappiamo solo noi “iniziati”. È roba esoterica, per cui non spargete troppo la voce: per comunicare bene basta parlare con sincerità e verità alla testa e al cuore delle persone. Né più né meno.

Sull’Internet non c’è solo TikTok, dove sono sbarcati Calenda e Salvini (a proposito di malinconie e orrori), ma anche fior di social specializzati nel networking professionale. Lì dentro, certi esperti sostengono che le campagne elettorali degli schieramenti più importanti siano campagne ben studiate. Il popolino non lo può capire e fa i meme, ma loro, che sono esperti di marketing, lo sanno. Loro lo sanno. Fa già ridere così. Se si vanno a leggere le motivazioni, poi, viene da piangere. Gli slogan devono essere massimo di tre parole! Ma una è meglio! Una sola parola ombrello sotto la quale raccogliere, di volta in volta, i contenuti! Perché? Ma perché le statistiche parlano chiaro: la soglia di attenzione è in caduta libera. Come mai? Grazie all’Internet!

Quindi: le campagne vincenti si fanno con una sola parola: forte, memorabile e… vincente! Uhm. Viene in mente quel famoso poster dell’Economist, che diceva: A poster should contain no more than eight words, which is the maximum the average reader can take in at a single glance. This, however, is a poster for Economist readers.

  • Vediamole queste parole ombrello, di cui s’è fatto un gran parlare. Abbiamo già accennato al PD. Ha scelto… “Scegli”. Tipo di parola: verbo. Modo: imperativo. Persona: seconda singolare. Dito vagamente puntato contro, colpevolizzante. Sottotesto: se capiteranno certe cose – tipo che sputtaneremo il PNRR o che la Cirinnà non riuscirà a farsi una messa in piega decente – sarà colpa tua. Tua, di te che non mi sei venuto a votare. Che non sei venuto perché volevi andare a fare una scampagnata. E niente. A sinistra non si riesce a neutralizzare il fondo di moralismo che ne pervade l’anima profonda. È un moralismo che nasce dalla convinzione di sapere meglio degli altri come si vive, e di avere il dovere di insegnare loro cosa è giusto e cosa è sbagliato. Non può che tradursi in un imperativo. Proprio come fanno quelle pubblicità che vogliono spiegarti come devi essere, come devi comportarti, cosa diavolo ti devi mettere addosso e cosa cavolo ti devi comprare per essere up to date, adeguato ai tempi, finalmente felice! Lo dico ai guru che hanno consigliato questo tipo di comunicazione: ma che vi serve compulsare big data, ingurgitare analisi sociologiche, analizzare i mille rivoli in cui defluisce la società liquida… se poi cascate nel più banale degli errori qual è, per l’appunto, l’uso dell’imperativo? Via, via, cambiate mestiere. Voto negativo anche alla grafica. Anzi, questa è la parte peggiore. Le due opzioni di scelta (per esempio a sinistra “Con Putin” e a destra “Con l’Europa”) sono paritarie, di uguale valore, sullo stesso piano. Mettere quella cattiva su nero e quella buona su rosso (con dietro il faccione di Enrico Letta) più che diradare la confusione, fa tanto forza Milan (Salvini sarà contento). Il consiglio: impostate la comunicazione su degli aut-aut solo se di cognome fate Kierkegaard.
  • Per la Lega di Salvini la parola ombrello è: “Credo”. Ne ho scritto diffusamente su Vita di settembre, che spero acquisterete in edicola, o leggerete online. Ma dico qualcosa anche qui. Tipo di parola: verbo. Modo: indicativo presente. Persona: prima singolare. Ecco. Gli slogan in prima persona solo se sei Martin Luther King (“I have a dream”) o Ike Eisenhower (“I like Ike”), non se sei un Salvini qualsiasi, per di più in caduta libera di consensi. “Credo” è addirittura più vuoto di “Scegli”. Almeno là c’è quella che viene chiamata, in gergo tecnico, CTA, call to action. È uno stimolo all’azione. Con tutti i limiti sopra elencati, certo. Perché alla fine è una campagna che dice: scegli, o noi o loro. Non è un programma politico, non è un ideale nel quale riconoscersi, non è qualcosa per cui ci si vorrebbe sacrificare. È una contrapposizione alle destre avanzanti, o poco più. Ma alla fine non è così vuoto, così perso in qualche lontananza siderale, così glaciale come “Credo”. Credo, e allora? Siamo felici per te, Salvini, se credi. Ma a noi cosa ce ne può calare? Naturalmente, c’è la questione della strizzatina d’occhio al mondo cattolico. Un’idea talmente stupida che si fa fatica a commentarla. La strizzatina, chiaro, non è fatta al mondo cattolico di sinistra, cioè ai cosiddetti cattocomunisti, che non voterebbero Salvini nemmeno se diventasse di etnia Bantù; è fatta al mondo cattolico di destra e centro destra, quello che non se la sente di votare chi ha proposto una cosa come il DDL Zan e che chiama l’aborto “diritto” invece che “tragedia”. Bene. Che Salvini pensi di conquistare questo mondo con così poca spesa, neanche fosse popolato da una massa di rimbambiti che non sanno né leggere né scrivere (non è così), la dice lunga sullo stato di prostrazione e di affanno di questo ex-leader che solo fino a quattro anni fa chiedeva i pieni poteri, e che da quando Luca Morisi – il suo spin doctor della comunicazione – in seguito alle note vicende dei festini, è stato allontanato (si presume con una buonuscita cospicua), in comunicazione non ne imbrocca più una che sia una. Salvini ha consegnato i voti dei cattolici che non amano Papa Francesco a Giorgia Meloni. Un bell’autogol.
  • Giorgia Meloni, ecco. Sua la parola ombrello migliore: “Pronti”. Non ci vuole un genio della pubblicità per capire che tra chi parla in prima persona (credo), e chi parla impartendo ordini (scegli), vince il terzo incomodo, ovvero chi dice “noi”. In più è una donna (anche se Michela Murgia e Chiara Valerio non glielo vogliono riconoscere), ha un bel sorriso, e con il suo slogan coinvolge chi legge in un progetto. Vince a mani basse. Parlo della comunicazione, non delle elezioni… quello lo sapremo il 26 settembre. Giuseppe Mazza, in un articolo molto interessante, spiega che “il claim parla a nome di una formazione che è plurale nel nome – Fratelli d’Italia – e vuole segnare un approdo storico per l’estrema destra italiana. (…) Il simbolo di Fratelli d’Italia è una macchina del tempo, una sorta di spirale ipnotica in movimento i cui tre cerchi, uno dentro l’altro, ci portano a epoche lontane. Nel cerchio più piccolo, lo sappiamo, figura la fiamma tricolore che nella mitologia missina arde in eterno sulla tomba di Mussolini e fu disegnata da Almirante stesso, ex repubblichino e segretario dell’MSI, partito il cui nome fu ideato a evocazione di quello della Repubblica Sociale Italiana, RSI. (…) Un lungo tragitto è in effetti leggibile nel puro linguaggio visivo: a un’epoca segue l’altra, dalla fiamma si salta nel cerchio con il nome del partito e poi in quello più vicino al nostro sguardo con il nome dell’attuale leader. Un’autentica sequenza, che ne fa il logo più stratificato e saturo di passato tra quelli delle forze politiche principali”. “Pronti” affonda la sua ragion d’essere in un humus reale, nel quale chi viene interpellato può riconoscersi. Se “Scegli” e “Credo” si perdono l’uno in un manicheismo inadatto ai tempi che corrono e l’altro in un vuoto di idealità imbarazzante, “Pronti” raduna un popolo che sente di poter finalmente uscire dall’emarginazione culturale di cui è stato fatto oggetto nell’Italia del Dopoguerra. Rimane il problema che ha sollevato lo storico Franco Cardini, uomo di destra, in una intervista: la classe dirigente di Fratelli d’Italia è del tutto inadeguata a guidare un paese. Rimangono anche l’odioso atteggiamento verso i migranti e i deliri di blocco navale, eccetera. Ma qui si parla di comunicazione e i giudizi sulla bontà o meno delle proposte politiche li lasciamo ad altri.

Gli slogan degli altri partiti.

  • In breve, Calenda e Renzi: “L’Italia, sul serio”. Non riesco a capire se è una campagna per l’aeroporto di Bergamo o una rassicurazione a chi pensava che questa alleanza fosse un calembour. Terribile, impersonale, insignificativo, bocciato.
  • Berlusca e l’allegra brigata: “Una scelta di campo”. Mah. Vuoto. Inutile. Fa quasi tenerezza. Non so cosa dire. L’unico che forse avrebbe potuto davvero parlare in prima persona, per radunare quegli ultimi aficionados che gli sono rimasti…
  • Parla in prima persona Emma Bonino: “Io sono Emma”. E piacere, io sono Doriano… Va bene contrapporsi a “Io sono Giorgia”, ma non si poteva fare meglio? Bisogna dire, a parziale discolpa, che il suo programma è nel nome del partito: + Europa.
  • Cinquestelle: “Dalla parte giusta”. Sembra quello che, presumo, pensa Marco Travaglio ogni volta che si guarda allo specchio. Lui è quello giusto, loro sono quelli giusti, beati loro.
  • Di Maio: “Difendiamo la libertà”. Di Maio. Mamma mia. Ma hai strappato violentemente dal movimento che ti ha portato su. Hai compiuto un’azione storica e una scelta, per la tua carriera, non si sa ancora se scellerata o grandiosa. E te ne esci con una cosa così scontata e sciapa? Mah. Ti dedico una frase di Nanni Moretti: continuiamo così, continuiamo a farci del male. Questo sì che è uno slogan.

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