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Cooperazione & Relazioni internazionali

Special needs: servono le etichette nelle adozioni?

La CAI sta pubblicato il dettaglio statistico delle adozioni concluse nel 2021 e nel primo semestre del 2022. Nessuna sorpresa, i numeri sono sempre in calo e la responsabilità non è solo del Covid. Le statistiche evidenziano il dato sui bambini special needs: serve assegnare ai bambini questa dicitura? E come interpretarla?

di Marco Rossin

È la fine? Il sistema di adozioni internazionali per come lo conosciamo è giunto al suo epilogo? Forse sì. Sicuramente i dati relativi al numero di bambini entrati in Italia attraverso adozione internazionale nel 2021 e ora quelli appena pubblicati relativi al primo semestre del 2022 non ci dicono il contrario.

Colpa del Covid? No, quanto meno non solo. Leggendo le interpretazioni dei dati, del trend negativo iniziato nel 2012, è facile attribuire al Covid anche la responsabilità della spallata finale a questo declino oramai inarrestabile. Così non è, ovviamente: insufficiente reattività istituzionale, società – italiana e mondiale – che cambiano, sistema degli Enti Autorizzati per le adozioni internazionali inadeguato e sì, anche il Covid. In un sistema di cui oramai viene difficile pensare cosa salvare, ci rendiamo conto che molti termini tecnici sono entrati talmente tanto nel linguaggio di chi mastica adozioni da averne perso il senso originario. Non è anomalo un utilizzo talmente frequente e disinvolto di alcune parole, da renderne il senso e il significato qualcosa di remoto, perso.

Prendiamo gli "special needs". In base a quanto indicato dalle Linee guida del Permanent Bureau nell’ambito dei lavori della Conferenza de L’Aja, con adozioni di minori con special needs si intendono, in particolare, le adozioni di bambini che si trovano in situazioni di particolare necessità poiché hanno subito gravi traumi o che presentano problemi di comportamento (bambini che hanno subito gravi maltrattamenti o abusi, bambini iperattivi o con disturbi della condotta più gravi) e/o con incapacità fisiche e mentali di vario genere. A questi si aggiungono anche i minori adottati con fratelli e/o sorelle e i minori adottati di età superiore ai 7 anni.

I dati parlano di bambini, questo è ovvio. I dati parlano di bambini special needs: perché? Un approccio romantico potrebbe focalizzarsi su quanto sia ingeneroso assegnare a un bambino una definizione tanto poco piacevole. A rischio di essere ridondanti e banali è sempre importante ricordarsi che si parla di bambini, meritevoli di ogni possibile attenzione per prevenire discriminazioni, pratiche e ideologiche. Un approccio meno romantico potrebbe invece chiedersi a cosa serve assegnare a questi bambini tale dicitura.

Posto che siamo di fronte a un dato statisticamente non affidabile: è ad esempio di gennaio 2014 una nota del Dipartimento Consolare del Ministero ucraino competente per le adozioni, dove veniva esplicitamente detto che le famiglie straniere attese dall’Ucraina erano esclusivamente quelle disponibili a adottare bambini portatori di handicap; bambini maggiori di 10 anni; gruppi di fratelli (4-5) dagli 8 anni in su. Leggere dai dati che solo il 71,7% dei bambini proveniente dall’Ucraina è stato registrato come special needs quanto meno stona, sia con la nota di Kiev sia con la realtà che le famiglie incontrano in questo paese, realtà che invece è assolutamente aderente a quanto espresso nella nota.

Posto inoltre che siamo di fronte a una non interpretazione. Come dovremmo leggere la sottolineatura sul Burundi, dove pare che non siano stati adottati bambini cosiddetti special needs? È una nota positiva? È un modo di dire che in questo Paese il sistema sussidiario dell’adozione non esiste? È un incentivo alle famiglie a dirigersi verso il Burundi?

Posto in ultimo che lo scenario [dei minori con bisogni speciali adottati ndr] non si discosta da quello del 2020, quindi che la funzione sussidiaria dell’adozione è anch’essa in una fase di stallo.

Considerato quanto sopra la domanda centrale rimane: perché assegnare a un bambino questo marchio?

Ogni bambino ha le proprie caratteristiche e specificità, che lo rendono unico; è un individuo a sé e come tale va considerato, valorizzato e ove possibile accolto. Nel momento in cui l’utilizzo del termine special needs risulta essere forviante, se non addirittura dannoso, rischiando implicitamente di discriminare bambini già di per sé vittime di abbandono, il permanere del suo utilizzo appare solamente come l’ennesimo retaggio che a inerzia portiamo avanti di un sistema che oramai è al capolinea.

*Marco Rossin è responsabile adozioni di AVSI

Photo by George Pagan III on Unsplash


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