Economia & Impresa sociale 

Un nuovo patto per lo sviluppo del Terzo settore

Per un nuovo welfare occorre mettere al centro il lavoro sociale ridandogli dignità. Serve un nuovo Ccnl per gli operatori del Terzo settore che non rientrano in quello delle cooperative sociali, e serve un adeguamento di quest’ultimo per aumentare di almeno il 30% le retribuzioni attualmente previste per le figure specializzate.

di Tommaso Nannicini

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la riflessione di Tommaso Nannicini senatore del Pd e candato alle elezioni.

Il Terzo settore tiene insieme persone, fragilità, territori. È uno dei settori chiave per la coesione sociale su tutto il territorio nazionale, non solo nelle fasi di emergenza come la pandemia, ma nella miriade di servizi che associazioni, cooperative, enti di volontariato svolgono ogni giorno. La politica non ha difficoltà a tributare questo riconoscimento nei suoi convegni e nelle sue campagne elettorali. Ma poi spesso se ne dimentica nei suoi decreti legge, nei suoi bandi, nelle sue convenzioni. Questo divario tra parole e fatti non è più accettabile.

Il Terzo settore produce il 5% del Pil italiano e occupa oltre un milione di persone, con servizi sempre più specifici, innovativi e professionali. È impossibile continuare a vedere il lavoro sociale come mero volontarismo da missionari, in cui la parte di empatia e assistenza con la vittima o con il beneficiario sono gli unici elementi per la valutazione del lavoro svolto. Il volontariato è fondamentale e va rilanciato. Ma questa narrativa che mette al centro solo l’approccio caritatevole rischia di far percepire il Terzo settore come un settore a scarso valore aggiunto. In altri paesi si assiste invece a un passaggio osmotico di management tra Terzo settore e imprese, a testimonianza dell’alta considerazione professionale che viene riconosciuta al mondo del no-profit. Da noi, invece, il Terzo settore è spesso trattato come fornitore di mano d’opera, una sorta di agenzia interinale a basso costo. È il caso di bandi e convenzioni dove si integrano organici pubblici con personale di cooperative che svolge lo stesso lavoro dei dipendenti venendo pagato almeno il 30% in meno.

Nei budget dei servizi che vengono messi a gara dalle amministrazioni pubbliche, i costi generali di struttura e il lavoro a essi connesso, quando sono riconosciuti, sono risicatissimi. Le retribuzioni orarie riconosciute agli operatori sociali sono estremamente basse, sia rispetto al valore sociale che producono sia rispetto al loro grado di professionalizzazione. In queste condizioni, è giusto chiedere che questi interventi abbiamo qualità e garantiscano un impatto positivo sui beneficiari? È giusto chiedere un alto livello di servizio in assenza di un Ccnl del Terzo settore, attualmente diviso tra il contratto delle cooperative sociali e quello del commercio? Davvero si può pensare di avere elevati livelli di assistenza e innovazione sociale con paghe che superano a fatica la soglia del lavoro povero? Perché, se un’azienda profit tiene una quota di costi generali tra il 20% e il 30%, una struttura del Terzo settore dovrebbe riuscire a garantire la qualità del lavoro dei propri dipendenti con una quota tra lo 0% e il 7%? La conseguenza è un turnover estremo e a senso unico, con molti operatori sociali che escono dal settore per un lavoro migliore, meglio retribuito e con prospettive di crescita più alte.

Prima ancora di allargare la rete dei nostri servizi di welfare valorizzando il ruolo del Terzo settore in ogni intervento legislativo – cosa che va indubbiamente fatta – dobbiamo offrire un nuovo patto agli operatori del settore. Serve un nuovo Ccnl per gli operatori del Terzo settore che non rientrano in quello delle cooperative sociali, e serve un adeguamento di quest’ultimo per aumentare di almeno il 30% le retribuzioni attualmente previste per le figure specializzate.

Ma affinché sia possibile, serve un intervento legislativo opportunamente finanziato che – a parità di bandi e convenzioni – preveda che

(1) il costo della manodopera non possa essere oggetto di ribasso, né inferiore al livello retributivo di riferimento per i dipendenti pubblici che svolgono lo stesso servizio o servizi analoghi;

(2) i costi generali di struttura non siano inferiori al 15%; (3) eventuali rinnovi valorizzino gli investimenti in formazione e relazioni che gli operatori hanno fatto sul territorio.

Se davvero vogliamo costruire lo stato sociale del post pandemia, partiamo da questo patto, passiamo dalle parole ai fatti.


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