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La comunità educante? Non è un puzzle ma un desiderio

Tutti parlano di comunità educanti, ma per costruirle non basta creare connessioni tra qualcosa che esiste già, come in un puzzle. «Si tratta di costruire e desiderare qualcosa che nel nostro Paese non c'è, ossia un immaginario comune sull’educazione», dice il pedagogista Daniele Novara. È il tema del prossimo convegno nazionale del Cpp: «Educare non è questione che riguarda solo insegnanti e genitori ma c’è una responsabilità comune, tutti dobbiamo esserne consapevoli»

di Sara De Carli

Mette le mani avanti, con la solita verve, partendo dallo sgombero della retorica: «ll tema del costruire una comunità educante non è mettere assieme qualcosa che c’è già, per sommatoria. Quello è un equivoco. Costruire una comunità educante, oggi, significa costruire qualcosa che non c’è. Qualcosa che manca drammaticamente. Costruire un immaginario comune sull’educazione, una comunità che sia un ambiente che respira un desiderio educativo comune, che abbia uno sguardo benevolo e positivo nei confronti delle nuove generazioni. Questo è il tema. E farlo in un paese che ha invece una dissociazione educativa, in cui il problema di far crescere le nuove generazioni non è all’ordine del giorno, letteralmente».

Daniele Novara, pedagogista e fondatore del Centro PsicoPedagogico per l'educazione e la gestione dei conflitti, spiega così la scelta di dedicare il convegno nazionale del prossimo 22 ottobre – il primo a tornare finalmente in presenza – al tema delle comunità educanti, sotto il titolo “Nessuno si educa da solo. Come costruire una comunità per crescere insieme”. L’appuntamento è a Piacenza, dove ha sede il Cpp, con 20 relatori, 10 interventi tematici e 9 pedagogisti (qui il programma completo): fra gli ospiti Damiano Tommasi, sindaco di Verona ed ex calciatore intervistato da Lucia Castelli, pedagogista del settore giovanile dell'Atalanta; gli attori Carlotta Natoli e Giacomo Poretti, la scrittrice Susanna Tamaro e il maestro Alex Corlazzoli.

È noto e forse abusato il proverbio africano per cui “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”. Qual è esattamente la sua visione di comunità educante?

Dobbiamo fare un passo indietro, se no rischiamo la retorica e si sa che io odio le melensaggini. La premessa da fare, meno scontata, è che il nostro paese ha una dissociazione educativa, in cui il problema di far crescere le nuove generazioni non è all’ordine del giorno, letteralmente. Pensiamo ai nidi: tutti parlano di aumentare i posti, ma la frequenza ai nidi è diminuita negli ultimi anni perché le rette sono insostenibili per le famiglie. Oggi il primo anno di vita di un bambino costa in media 7mila euro a una famiglia e questo pare non riguardare nessuno tranne la famiglia stessa. La prima cosa da dire è che la questione dei figli non riguarda solo i genitori, così come l'apprendimento non riguarda solo la scuola: educare è una responsabilità e un compito comune. Questo intendo quando dico che per costruire una comunità educante bisogna mettere insieme qualcosa che non c’è: questa consapevolezza non c’è, questo sguardo non c’è. Serve prima di tutto costruire una sensibilità comune, che non significa uno sguardo omogeneo perché le differenze di punti di vista sono inevitabili… ma un desiderio, un immaginario comune sull’educazione. Se invece continuiamo a pensare che l'educazione riguarda solo gli altri – solo i genitori, solo gli insegnanti, solo i professionisti, solo gli specialisti… – non ne usciamo. La crescita delle nuove generazioni è qualcosa che riguarda tutti.

ll tema del costruire una comunità educante non è mettere assieme qualcosa che c’è già, per sommatoria. Quello è un equivoco. Costruire una comunità educante, oggi, significa costruire qualcosa che manca drammaticamente. Costruire un immaginario comune sull’educazione, una comunità che sia un ambiente che respira un desiderio educativo comune, che abbia uno sguardo benevolo e positivo nei confronti delle nuove generazioni.

Daniele Novara

Il convegno – ci sarà una mappa con la geolocalizzazione delle varie realtà iscritte – si propone esplicitamente di essere già un momento concreto di incontro fra le varie realtà, un luogo in cui i potenziali tasselli della comunità educante da costruire possono già avvicinarsi.

Il convegno più che un convegno sarà un evento, è il nostro stile. Dobbiamo costruire delle connessioni, sì, ma prima – insisto – dobbiamo costruire un immaginario. Dal nostro punto di vista per esempio significa metterci a disposizione, come pedagogisti, di un progetto più ampio: come il pedagogista si mette al servizio dei genitori, perché sono loro a educare i figli, così il pedagogista oggi si deve mettere al servizio di tanti altri attori, magari non scontati, come gli allenatori o gli attori che portano altri linguaggi nelle scuole. Serve una ibridazione tra funzioni e professionalità che apparentemente non sono educative ma che rientrano tutte dentro un progetto di crescita. Non c’è nulla di moralistico nel processo educativo, non si tratta di crescere dei "bravi bambini" ma di avere in mente il processo educativo come un processo di liberazione, che tira fuori le risorse di ciascuno. Diciamo che chi partecipa a un nostro evento ha già attivato le risorse e ha già anche delle risposte… ha solo bisogno di una conferma, quasi di una autorizzazione ad osare. L’evento ha una funzione catartica, spinge ad essere coraggiosi, ad investire nei processi educativi, ad essere coraggiosi, a non tirarsi indietro, a vivere le professioni educative come una sfida entusiasmante.

«Nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme, con la mediazione del mondo», diceva Paulo Freire…

Ed eravamo negli anni ‘80. Noi oggi abbiamo moltissime conoscenze in ambito neuroscientifico che ci dicono che è l’imitazione che fa imparare, è il lavoro di gruppo che fa raggiungere gli obiettivi. L'accanimento della scuola contro il “non copiare” è archeologico. Il tema della scuola non deve essere il non copiare ma il far lavorare insieme, perché nel parlare, nel condividere, nel creare ambienti osmotici si creano delle compenetrazioni, come in una jam session musicale. Paulo Freire, don Milani hanno intuito a livello antropologico qualcosa di cui oggi abbiamo conferme neuroscientifiche. Per questo il distanziamento ha avuto un impatto così disastroso sugli apprendimenti: non si impara nulla stando isolati. Il neurobiologo Alberto Oliverio per esempio dice che la riserva cognitiva è calata di un anno in questi due anni di pandemia e dad.

Come pedagogisti ci mettiamo a disposizione di un progetto più ampio: come il pedagogista si mette al servizio dei genitori, perché sono loro a educare i figli, così il pedagogista oggi si deve mettere al servizio di tanti altri attori, magari non scontati, come gli allenatori o gli attori che portano altri linguaggi nelle scuole. Serve una ibridazione tra funzioni e professionalità che apparentemente non sono educative ma che rientrano tutte dentro un progetto di crescita.

Che significa che educare non può essere delegato in via esclusiva agli specialisti?

È un discorso delicato: da un lato non bisogna delegare, dall’altro non ci si può nemmeno ridurre al fai da te. È importante che ognuno sia consapevole della componente educativa e formativa della propria presenza sociale. Vale per i giornalisti, per gli attori, per i baristi, per i politici, per chi fa le app… Il mio appello è dire che educare non è questione che riguarda insegnanti e genitori ma c’è una responsabilità comune, tutti dobbiamo essere impegnati e consapevoli. Per esempio, se tuo figlio a 14 anni sta male, hai necessità di creare una visualizzazione di uno scenario possibile, di creare un sogno su tuo figlio, di non cristallizzarlo nel suo malessere: questo si fa insieme. Tanti ragazzi oggi stanno male ma la terapia è la normalità, fare sport, innamorarsi, vivere la sessualità, litigare bene… non abbiamo bisogno di patologizzare le nuove generazioni, ma di una normalità educativa che veda l’educazione come un percorso liberante.


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